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La generazione “scenario” anche quest'anno al Teatro della Tosse di Genova, diventato tra l'altro nuovo membro appunto dell'associazione “Scenario” che da tempo promuove la giovane drammaturgia italiana con un premio che ha il suo culmine nell'estate romagnola di Santarcangelo dei Teatri.

Alla sala Campana dunque, in tre serate dall'8 al 10 di maggio, la “Tosse” propone nella versione definitiva vincitori e candidati vincitori, tra questi ultimi ha aperto la rassegna, ieri 8 maggio, lo spettacolo del genovese Gruppo Teatro Campestre, semifinalista dell'edizione 2013.

AMAMI, BACIAMI, SPOSAMI
La solitudine tra la folla, la solitudine nelle relazioni tra esseri umani all'interno delle quali il contatto intimo e profondo, quasi una chimera nel deserto dell'esistenza, è filtrato in infinite mediazioni che ne intercettano, allontanandola, ogni vera profondità.
Questa la paradossale sfida della giovane drammaturga del GTC, una Elisabetta Granara che pare avviata ormai ad una maturazione continua e molto poco inaspettata, con questo lavoro ricco di intuizioni non solo narrative ma anche, e direi soprattutto, drammaturgiche.
La sfida cioè di recuperare sincerità ed autenticità, psicologiche ed esistenziali, esasperando fino in fondo quelle stesse mediazioni fattesi maschere usa e getta in uno show di illusionismo esistenziale che man mano ci circonda, ci occupa e, ormai quasi inconsapevolmente e subliminalmente, ancora e per fortuna ci preoccupa.
Così la ricerca del completamento interiore attraverso la relazione con l'altro, centro di una infinita serie di relazioni che vorrebbero e dovrebbero connotarci nel nostro esistere, e di cui il matrimonio è semplice metafora, una metafora dalle ancora fortissime corrispondenze collettive, è posta all'interno di uno show mediatico, tra i tanti “c'è posta per te” che affollano i palinsesti ed un social network condiviso ma sempre più eterodiretto.
Una trama complessa e complicata gestita con abilità e padronanza dalla Granara e dal coautore Alberto Tamburelli, fin dall'apertura della narrazione, intrigante ed illuminante, della solitudine della concorrente di fronte alle lontananze sonore e psicologiche di strane telefonate, quattro per la precisione alla migliore amica, alla sorella, alla madre ad un ex fidanzato.
È una delle prove del talk show ovvero di un ben particolare “talent show” in quel grande fratello contemporaneo orfano anche di Orwell, il cui premio è appunto il matrimonio ovvero un marito ancora sconosciuto.
La drammaturgia comincia così a rivelarsi, squadernando e scardinando sistematicamente i totem e i luoghi comuni della contemporanea comunicazione, che ha come primo nemico ogni fornitore di senso e datore di significato, totem che man mano, dalla intervista test “quasi” psicologico, alla visita medica ridicolmente eugenetica, si ribaltano nel loro contrario così da smascherarne la essenziale inconsistenza.
Metafore, simbologie e riferimenti interni ed esterni si confondono e dunque si sovrappongono senza sconti e senza remissione, coinvolgendo riti e religiosità perdute di cui si tenta un improbabile recupero nella paradossale ultima prova del sogno nascosto o dell'uomo ideale.
Elisabetta Granara, protagonista sul palcoscenico oltre che nella scrittura condotta a quattro mani, alla fine risulta vincitrice, ma non solo e non tanto all'interno dell'ironico spettacolo pseudo-televisivo, quanto soprattutto all'interno della concreta messinscena di questo drammetto tra il satirico e l'alienato, cui l'ironia, in particolare nella scrittura scenica, dà la leggerezza sufficiente ad entrare in contatto.
È, infatti, questa una drammaturgia che ha la sua forza soprattutto nella messa in scena e nella sua sintassi, mentre la sintassi narrativa ancora segnala qualche ingenuità e forse ancora qualche immaturità ed eccesso di timore di fronte alla possibilità di condurre fino in fondo, e con un po' più di cattiveria anche senza rammentare Thomas Bernhard, le interessanti intuizioni che talora sembrano sfuggire tra le righe di un discorso che vuole troppo farsi capire e anche apprezzare.
Con la Granara in scena le compagne di avventura sin dalla creazione del Gruppo, le brave Elisa Occhini e Sara Allevi capaci di ritmare sapientemente mimica e recitazione in armonia con i movimenti della sintassi scenica.
I costumi, adeguati e fantasiosi, sono di Pasquale Napolitano, le musiche originali sono di Matteo Casari e Rocco Spigno, le scene di Alessandro Granara.
Uno spettacolo che nel suo complesso dà testimonianza di un progresso continuo e di un fermento artistico interessante che ha meritato ed ottenuto un notevole successo, con qualche ovazione, dal numeroso pubblico presente.

W (prova di resistenza) foto Tomaso Mario Bolis
A seguire, con felice scelta rappresentativa negli spazi del bar caffetteria del teatro della Tosse efficacemente approntati a proscenio ravvicinato e quasi intimo, questa drammaturgia già vista e commentata nella sua edizione provvisoria alle finali di Santarcangelo di Romagna, ove si è conquistata la segnalazione speciale della giuria.
Narrazione drammaturgica impastata di parole e di cose, e quindi, di esistenze concrete lontane nel tempo ma profondamente contemporanee nei significati e nei valori.
Parma 1922, i quartieri popolari resistono e respingono gli assalti delle squadre fasciste di Italo Balbo scese dalla bassa Ferrarese per reprimere lo sciopero generale.
Questo il contesto storico abilmente reso fuori dal tempo, come metafora universale, attraverso il gioco teatrale dei mattoni forati, simbolo di resistenza e qui capaci di superarne ogni prova, quasi oltre la loro stessa natura.
Gioco teatrale che trasla un mondo infantile nella semplicità adulta e consapevole di persone semplici ma ricche di valori, quelle persone che nelle contingenze più tragiche salvano spesso questo paese contraddittorio, o almeno ne salvano la sua anima più profonda.
Ne sono protagoniste soggettività drammaturgicamente rappresentate, con sapiente gioco sintattico, nei soprannomi fantasiosi, metafore essenziali di esistenze e resistenze, dalla donna che sognava l'america, all'uomo che correva sui tetti, dalla mora dagli occhi storti fino alla tragica morte di Gino troppo presto adulto.
I mattoni forati che man mano si spostano in scena, creando spazi e luoghi, riavviando percorsi temporali apparentemente perduti, sono segni che si caricano di simboli e di valori, valori che in fondo continuiamo ad amare e ci aspettiamo di amare.
Beatrice Baruffini ne è la giovane drammaturga ed interprete sulla scena improvvisata, circondata dal pubblico come in una antica narrazione dinanzi ad un fuoco. È coadiuvata per luci e audio da Dario Alberici.
La Baruffini dimostra sapienza di scrittura e di resa scenica, nella mimica e nei movimenti recitativi, e si dimostra, con una maturazione costante, meritevole della segnalazione che trova ora adeguato conforto in questa versione ormai, credo, definitiva dello spettacolo.
Uno spettacolo che non si sottrae alla commozione, pur con tutto il pudore che queste storie esigono, e che ha riscosso partecipazione e successo da un pubblico, più numeroso degli spazi predisposti, che sembrava avvicinarsi sempre più alla Baruffini mentre questa andava narrando e recitando.