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Si chiude questa settimana la XIX Rassegna di Drammaturgia Contemporanea promossa dallo Stabile di Genova e si chiude con un bilancio molto positivo ed interessante per la qualità espressa dagli spettacoli di quest'anno, sia dal lato delle drammaturgie selezionate, che da quello delle singole messe in scena

ed infine delle capacità recitative manifestate dai giovani protagonisti, da poco diplomati alla scuola di recitazione dello stesso Stabile di Genova, scuola che ancora una volta si conferma eccellente.
Terzo esordio dunque, ieri 27 maggio, per questa drammaturgia opera prima della giovane artista polacca Dorota Maslowska, nota soprattutto per i suoi romanzi, in particolare per il primo che nel 2002 ebbe un successo fulminante.
Scrittura interessante ed eterodossa, talora “sbilanciante” ed anche ricca di quell'energia culturale compressa ma ancora senza direzione che esplose nell'est alla caduta del muro, una scrittura che usa soventi forzature sintattiche e narrative per traghettarci da uno all'altro dei piani significativi che si intersecano nella esposizione scenica e che usa con sapienza sintassi tra il grottesco ed il teatro dell'assurdo.
Ne risulta depotenziata ogni lettura sociologica, quasi uno specchietto per le allodole da cui siamo tentati, in favore di quella psicologica e metafisica che fa della condizione di sradicamento, propria degli immigrati poveri, una metafora esistenziale che però conserva al suo interno la nostalgia per un mondo di sentimenti e valori che si sentono perduti ma ancora “vicini”.
All'interno di una struttura narrativa, anch'essa un miraggio, da commedia gialla, con il poliziotto che ricompone a posteriori un presunto delitto con le dichiarazioni di altrettanto presunti testimoni, la vicenda si sposta e si sfalda su rispecchiamenti interiori onirici e melanconici che rendono irreale anche la tragedia della morte.
La storia è apparentemente semplice, due giovani polacchi “sconvolti” da una festa in maschera si fingono (o si credono) romeni che parlano polacco e vengono così travolti da vicende surreali, dal rapimento di un automobilista, alla ricerca di un telefono in un bar perduto nella foresta, al rifugio nella casa di un folle, fino a perdere ogni riferimento identitario.
Metafora, dunque, di una condizione senza radici (e senza confini)  che recupera però quel romanticismo sognante e sentimentale che è alla base della sensibilità della cultura russa e slava in genere, un po' in forma appunto di sogno, un po' in forma di nostalgia che, infine ed entrambe, coinvolgono anche noi, pubblico occidentale, che se ne ritiene ormai purtroppo vaccinato. La rottura degli schemi tradizionali, sia narrativi che sintattici, sembra così una domanda di aiuto più che una vera e rabbiosa ribellione.
Tradotta da Marco Valenti, la drammaturgia è diretta da Marco Taddei con mano sicura e attenta a traslarne i delicatissimi meccanismi comunicativi, in ciò aiutato dalla scenografia semplice ma suggestiva e ricca di corrispondenze e rimandi di Sara Canepa che cura anche i costumi. Aiuto regista è Paolo Li Volsi.
I quattro attori in scena dimostrano una buona abilità recitativa e sono:  Matteo Santucci (Parcha) e Valeria Angelozzi (Dzhina-Gina) la coppia di polacchi-romeni o di romeni-polacchi, nonché Davide Mazzella e Valentina Illuminati che con altrettanta bravura si alternano negli altri numerosi personaggi della storia.
Uno spettacolo che ci riavvicina forse ad una sensibilità diversa e lontana, di impatto forte che ha riscosso molti e calorosi applausi.

foto: Patrizia Lanna