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Due amici inseparabili, uniti dal legame profondo fondato sulla condivisione di una delle esperienze più dolorose dell’umano: la follia. Dopo un paio di anni di manicomio, Elling e Kjell vengono affidati a un progetto di recupero che prevede il reinserimento nella società. Sotto la guida di un assistente comunale,

ricevono vitto e alloggio con un solo obbligo, sforzarsi di tornare alla normalità. Fino al 7 giugno 2014 all’Elfo Puccini di Milano (corso Buonos Aires 33), nell’ambito del Focus sulla drammaturgia internazionale, va in scena “Fratelli di Sangue” di Ingvar Ambjørnsen, nell’adattamento teatrale di Axel Hellstenius (traduzione di Giovanna Paterniti).
La regia di Mauro Parrinello sceglie un taglio volutamente minimal, tutto si svolge attorno ad una finestra, simbolo dell’apertura al mondo, confine tra il “dentro” della pazzia e il “fuori” del superamento della barriera, del limite, del tragico.
Stop improvvisi della recitazione aprono spazi ai pensieri e alle riflessioni dei personaggi, sottolineando un’uleriore dicotomia tra il “fuori” della comunicazione e il “dentro” del pensiero più intimo.
Dopo il successo del romanzo di Ambjørnsen e della toccante pellicola da Oscar a firma di Petter Naess (“Elling”), “Fratelli di sangue” spiazza il dramma, con leggerezza e ironia. La malattia di mente in un’ottica di riscatto diventa un messaggio di speranza. L’amore fa capolino in questa vicenda, senza atmosfere melense ma con un realismo sociale degno di nota. Il dramma della solitudine, il rifiuto dei genitori, la morte e l’inettitudine a vivere sono il fardello che causa la disperazione ma risultano trasfigurati dalla voglia di vivere. L’happy end finale e accenni azzeccati da commedia sanno allestire un’atmosfera curiosa, dove la solita malinconia nordica viene stemperata in un sarcasmo propositivo.