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LE HO MAI RACCONTATO DEL VENTO DEL NORD. Due finestre, una poltrona a sinistra, un divano a destra, un comodino a sinistra, una scrivania a destra, un letto sotto la finestra a sinistra, dei fiori fuori dalla finestra a destra.

Due case, due spaccati di ambienti, due spaccati di vita, come se improvvisamente ci ritrovassimo all’interno dei set dei telefilm o delle fiction, dove tutto è finto, dove le finestre non si aprono su un panorama o su una strada. Ma qui, una di quelle finestre, precisamente a sinistra, si imbatte, a volte, nel vento del Nord.
Due vite, parallele e quindi mai intersecanti, si incrociano virtualmente e per caso, attraverso una mail ed un indirizzo simile ma errato. Questo il nucleo fondamentale della trama contenuta nel caso editoriale dello scrittore e giornalista austriaco Daniel Glattauer. Dunque, ecco perché vento del Nord. Ironia a parte, questo è il racconto di una donna sposata e di un uomo deluso dall’amore, infelici e sconfitti entrambi, incontratisi per caso virtualmente attraverso una mail che si trasforma in un flusso di centinaia di mail e in alcuni mesi di confessioni, dialoghi, sussurri, confidenze e attese. Più che un caso di romanzo contemporaneo, si potrebbe parlare di due casi-esempio della nostra società. Diciamo la verità: una storia del genere non è una novità. Ricorda di certo dei film o esperienze realmente vissute. Ciò che bisogna comprendere a fondo in questo racconto è invece l’ amarezza del discorso sulla società contemporanea: individui che vivono barricati in casa, bicchiere in mano, cibo sulla scrivania e pc acceso sul mondo. Anche le finestre non si affacciano più sulla realtà, poiché servono solamente da scenografia per uno spettacolo. Quello di cui parliamo riporta appunto il titolo LE HO MAI RACCONTATO DEL VENTO DEL NORD, regia di Paolo Valerio. In scena Chiara Caselli e Roberto Citran, volti conosciuti del panorama attoriale italiano, dimostrano estrema sensibilità nell’interpretazione di due personaggi che potrebbero apparire scarni, ridondanti, banali. Invece il pubblico si appassiona, un po’ perché lo spettatore italiano ama le storie d’amore, seppur virtuali, un po’ perché i toni sommessi della recitazione, l’atmosfera notturna e silenziosa di interni di case,  il chiaroscuro della lampada, i riflessi dei vetri delle finestre, le luci che alternano i colori e le tonalità per rivelare gli stati d’animo e lo scorrere del tempo, tutto questo crea l’atmosfera adatta. Nessun computer appare in scena: scorrono unicamente le parole, come un fiume in piena che viene impresso sullo sfondo, come se fosse uno schermo gigante su cui digitare le mail. L’escamotage dello scorrimento delle parole sul video, in fondo alla scena, serve a dare movimento al dialogo dei due personaggi, soprattutto nei cambi temporali o nei momenti in cui la conversazione diventa eccessivamente ripetitiva. Serve, inoltre, per rendere scenica la narratività contenuta nelle pagine del racconto originario, operando dei tagli inevitabili.  Lo spettatore si chiede come andrà finire, presagendo già la conclusione,  anche se la conversazione virtuale tra i due sembra non interrompersi mai. L’intento del racconto, e quindi anche del regista, è che il lettore- spettatore cominci a vivere l’ansia dell’attesa e della conclusione ritardata. L’attesa stimola i sensi, e i due protagonisti spingono la conoscenza virtuale fino alla decisione più azzardata: l’incontro vero e proprio che, però, non avverrà mai. Se l’incontro avvenisse il senso del testo si perderebbe. La finzione delle vite reali e la verità della vita virtuale, creano un vortice confuso in cui un uomo e una donna non comprendono quale sia la vera realtà. Anche i sentimenti, fisici e psicologici, sono stimolati ulteriormente dall’impossibilità dell’incontro, che è atteso fortemente dai due proprio perché inconsciamente consapevoli che esso non avverrà mai. Niente e nessuno lo impedisce, tranne gli stessi protagonisti e il loro legame con la vita che trascorrono realmente.  Il “non poter avere” stimola questa nostra contemporaneità che preferisce non vedere e non vivere, facendone l’unico motivo di sopravvivenza. I due attori interpretano due simboli e attraverso la loro “morbidezza”, sia nei toni che nella gestualità, rendono la fluidità di espressione, l’alternanza tra la felicità e la disperazione, tra l’amore e la sensualità. Ma nessuno di questi sentimenti tocca quell’ apice che potrebbe destabilizzare tutto. Nonostante le emozioni, positive e negative, raggiungano nel corso dello spettacolo dei picchi, sembra che la tendenza generale sia quella di non far superare un limite, poiché è implicito il non-cambiamento. Questa tendenza porta lo spettacolo ad attenersi ad un equilibro costante. Bella l’interpretazione della Caselli e del Citran che dimostrano una grande eleganza scenica, nonostante, in effetti, la lunghezza eccessiva dell’attesa della conclusione. Questo dimostra che non siamo più abituati ad aspettare, evitando che qualcosa di positivo, pur irreale, si dissolva. Siamo caduti anche noi nella trappola.

METTERSI NEI PANNI DEGLI ALTRI
VESTIRE GLI IGNUDI
Le “Sette opere di Misericordia” di Caravaggio ispirano un regista. Più che un regista, Davide Iodice è artefice di una ricerca che vive e cresce da anni. Un vero artista che non dimentica la contemporaneità ma “gioca”, struttura, costruisce, inventa, parla attraverso gli elementi più deboli della società contemporanea. Il teatro è una ricerca visiva ed artistica che spesso si limita alla rielaborazione di testi o all’invenzione di partiture sceniche che abbiano una specifica collocazione, cioè il limite che scavalca  la realtà.  Le partiture sceniche di Iodice, invece, vengono create dalla e attraverso la realtà, in un momento fortemente emotivo che mescola e scioglie in sé invenzione, fantasia, crudeltà del presente. Non parliamo solo di teatro civile o di denuncia, che forse è qualcosa di ben diverso dalla produzione di Iodice, ma parliamo, piuttosto, della capacità di raggiungere il punto di fusione esatto in cui l’ uomo reso attore riesce a descrivere la sua storia attraverso metafore visive, simboli, immagini che rendono teatrale una storia vera. Molti storceranno il naso, diranno che il teatro non è questo: molti altri, invece, per fortuna, hanno decretato questo spettacolo come una delle emozioni più profonde del NTFI 2014. Davide Iodice lavora inevitabilmente attraverso laboratori che formano non l’attore, bensì rendono teatrale l’esperienza di vita. Tre sessioni articolate in tre luoghi diversi, importanti non solo per la loro funzione sociale, ma soprattutto per lo studio antropologico, oltre che artistico, che si svolge con e attraverso gli ospiti stessi: il Dormitorio pubblico di Napoli, le classi di italiano per migranti, l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Secondigliano. Il progetto complessivo ha poi mutato il suo titolo in CHE SENSO HA SE SOLO TU TI SALVI, dal verso di un componimento di Antonio Neiwiller. Tre luoghi, tre percorsi laboratoriali che rispettivamente seguono tre tremi: vestire gli ignudi, ospitare i pellegrini, visitare i carcerati. Il primo “obiettivo” è quello che caratterizza lo spettacolo di questo festival 2014: VESTIRE GLI IGNUDI, i cui attori e i non attori sono: Antonio Buono, Davide Compagnone, Luciano D’Aniello, Maria Di Dato, Giuseppe del Giudice, Pier Giuseppe Di Tanno, Raffaella Gardon, Ciro Leva, Bruno Limoni, Osvaldo Mazzeca, Vincenza Pastore, Peppe Scognamiglio, Giovanni Villani. Spettacolo itinerante tra i piani del Dormitorio pubblico di Napoli, tra le stanze, i letti, la lavanderia, la stireria. Non è la prima volta che assistiamo ad uno spettacolo itinerante all’interno di un edificio a-teatrale, ma per la prima volta ci sentiamo violentemente invasivi, pudicamente ci accingiamo a sbirciare attraverso le porte. Ciò che colpisce, dopo aver preso un ascensore, è il silenzio confortevole e confortante che si spande tra le mura di corridoi  e stanze. Sembra che i rumori della città non penetrino assolutamente all’interno di questo edificio, sembra che all’apertura di ogni porta si venga invitati ad entrare nel mondo ovattato delle vite di ogni protagonista. Gli attori, tranne quattro personaggi ( ballerino, due attrici, violoncellista,  un attore) sono persone del popolo: vite dolorose, pochi averi, esperienze condivise tra quelle quattro mura, dentro quelle stanze, al cui ingresso compaiono i cartellini con i nomi e  i cognomi degli occupanti.  La scelta del regista di far intraprendere agli spettatori un percorso non lineare è intelligente. Si parte da un ultimo piano, la lavanderia con terrazzo, per poi scendere giù, poi risalire, e riscendere ancora, fino a percorrere un corridoio che prima era luminoso, poi diventa buio (ma forse non è lo stesso corridoio!), segnato solo dalle linee nette di luce che fuoriescono dalle porte chiuse, fino ad una cappella con pozzo, luogo surreale e conclusivo. Insomma, un percorso articolato, come quello della vita, che  ci è indicato inizialmente da un uomo con naso rosso, poi da un attore con cappello. Le immagini sembrano sfocarsi, compaiono due infermiere silenziose, anche loro attrici, anche loro, come il ballerino e l’uomo-guida, indossano le maschere di Tiziano Fario. Grigie, aggrottate, rigide, dagli occhi fissi e indelebili, queste maschere rendono gli attori  indefiniti, impalpabili, di contorno, affinché l’attenzione si concentri sui non-attori. Geniale la scelta di attivare una delle grandi lavatrici e di unire il ritmo ed il suono di una centrifuga a quello di un violoncello suonato da una delle infermiere. Da un mucchio di panni gettati a terra emerge un uomo nero, senza volto, che si dimena fino a liberarsi dei panni, fino a rimanere nudo, moderno Cristo in croce, martoriato e torturato dai mali del nostro tempo, appeso come un cencio malconcio ai fili del terrazzo( e il ballerino rimane davvero agganciato con le braccia). Le storie dei protagonisti sono commoventi, rubano lacrime agli spettatori, alcuni dei quali ritornano per la seconda volta a rivedere e a rivivere, “mettendosi nei loro panni” . La storia di Maria che chiede agli spettatori di scegliere delle carte dal mazzo, legge i loro destini, e compone poesie in un vecchio quaderno sgualcito, si svolge nella stireria. Ne legge alcune, si apre un mondo inaspettato, di parole, di dolore, di amore, quasi come ne “Il castello dei destini incrociati” di Calvino.  Gli abiti sono i protagonisti e ogni carta corrisponde ad un abito, ad una vita che tutti noi indossiamo, per volontà, per necessità, per caso. Non vogliamo svelare tutte le storie, anche se siamo fortemente tentati, ma cerchiamo di analizzare anche le scelte registiche, dalla tenda composta da abiti da sposa, da cui si stacca una figurina femminile con abito bianco e maschera, sul cui candore viene proiettato il film ( vero!) del matrimonio di uno dei protagonisti. Una malattia violenta, un amore spezzato, un matrimonio eterno, una canzone per sopravvivere. Il mare e i coralli, la rete che porta a galla spezzoni di vita, fino al pozzo della vita con le foglie che cadono, l’album dei ricordi, il fantoccio- bambino-marionetta, nell’inevitabile evoluzione umana. Scarpe che pendono dal tetto, un padre che corre da una vita, nell’assenza di gambe del figlio, una chitarra e piccoli oggetti conservati, una farfalla di carta e il senso di libertà. Di sfuggita un armadietto, con la coda del l’occhio, mentre ci accingiamo ad uscire, notiamo un tovagliolo di carta attaccato sull’anta. Si legge: oggi, miracolo di San Gennaro. Seguono data ed orario. Piccoli accenni affinché gli spettatori siano invogliati a vedere e a rivedere questo spettacolo-studio, poiché narrarlo non è come viverlo. Ognuno di noi deve necessariamente percepirlo in maniera diversa. Iodice parla di due elementi fondamentali: compassione ed empatia. Obiettivo, dunque, raggiunto, nella speranza che altri spettatori possano ritrovarsi ad applaudire alla fine, in cerchio, con un filo rosso tra le mani che unisce tutti, pubblico, attori, protagonisti e regista. E nella speranza, infine, che questo spettacolo non vada in teatro ma rimanga in uno dei suoi luoghi di nascita, affinché sia artisticamente, visivamente ed emotivamente più efficace.

ZIO VANJA.
Come accennato nell’articolo di presentazione del NTFI 2014, uno dei focus principali di quest’anno è quello dedicato a Checov. Ben sei  spettacoli riportano in scena le pagine dell’autore russo: IL GIARDINO DEI CILIEGI per la regia di Luca De Fusco,  ZIO VANJA, LE TRE SORELLE, entrambi con la regia di Andrei Konchalovsky, UN VANIA, adattamento e regia di Marcello Savignone,  ZIO VANJA, regia di Rimas Tuminas, UN GABBIANO, regia di Gianluca Merolli. Occupiamoci dello ZIO VANJA di Konchalovsky. Ricordate il bell’allestimento de “La bisbetica domata”, in stile anni ’30, che lo stesso regista mise in scena, l’anno scorso, durante il NTFI 2013? Il connubio con il Festival e con Napoli continua e il regista russo ritorna, anche se per brevissimo tempo, sul palcoscenico del Mercadante di Napoli. Una sola replica per Zio Vanja, due repliche per Le tre sorelle. Tre giorni in cui la compagnia russa si cimenta nell’interpretazione dei personaggi checoviani, rendendo onore alla cultura nazionale. E anche noi spettatori assistiamo ad una performance interamente recitata in lingua russa. Prima esperienza per la maggior parte degli spettatori. Serata “evento” questa prima, ed ultima, de LO ZIO VANJA: tra il pubblico presenti tutti i critici napoletani, e parte del cast de “La bisbetica domata”, composto da attori italiani che rendono onore al regista. Presenti  anche numerosi attori napoletani e registi accorsi per applaudire il lavoro di Konchalovsky. Molti, infatti, hanno definito la replica rivolta solo agli “addetti ai lavori”, poiché il breve tempo destinatogli ha impedito a molti spettatori di assistere allo spettacolo. La scenografia è l’elemento che di certo colpisce subito: non solo verrà utilizzata anche per lo spettacolo successivo, “Le Tre sorelle”, ma segue uno stile già osservato all’interno dell’allestimento realizzato l’anno scorso. Il regista tende a portare tutto sul palco, tutto è funzionale, non ci sono cambi di scena con chiusura di sipario. La tendenza ad una meta teatralità portata a limiti estremi, faceva sì, l’anno scorso, che gli attori si cambiassero e si truccassero davanti al pubblico, durante lo svolgimento dello spettacolo. Anche quest’anno gli attori si ritrovano tutti in scena. Coloro che  non recitano, durante alcuni momenti, rimangono seduti lateralmente, su apposite sedie o poltrone, e questa scelta obbliga gli attori a non uscire mai dalla parte, ad osservare continuamente ciò che succede sul palcoscenico e a rientrare in scena improvvisamente, mostrando quasi un’aria ironica e saccente di chi può affermare di aver sentito e visto tutto, nonostante l’autore non lo prevedesse. Didascalie “portate” in scena, e anche i tecnici che modificano il mobilio in pochissimi attimi, a sipario aperto, come se fosse un “cambio gomme” da Formula1, sono visibili al pubblico, quindi parte integrante dello spettacolo e del cast.  Konchalovsky sceglie di introdurre gradatamente il pubblico alla storia, utilizzando suoni e rumori metropolitani che, man mano, cominciano a crescere fino a diventare assordanti, fino a zittire il cicaleccio degli spettatori che si accomodano in platea. Rumori ed immagini proiettate sul fondo rappresentano la vita ed il caos assordante di una metropoli contemporanea, presumibilmente russa. Si costringe, quindi, lo spettatore a riprendere coscienza, durante i cambi di scena ed i passaggi tra gli atti, della condizione del suo tempo e della realtà, vanificando, per alcuni minuti, l’immedesimazione nel racconto cechoviano e nei  suoi personaggi. Contrasto voluto, pungente, violento; lo spettatore esce per un attimo e poi ripiomba lucidamente nella vicenda. La scena è divisa in zone attraverso “un’isola” centrale, un piccolo palchetto sopraelevato che funge da salone, da camera da letto, da veranda. Tutto attorno altri oggetti, altro mobilio, attraverso cui si muovono i servi, la balia, il garzone. Questo palchetto, inoltre, mette idealmente in comunicazione l’interno con l’esterno: l’interno scenico e l’esterno scenico ( vedi appunto l’altalena), ma anche l’interno scenico e l’esterno in “medias res” ( cioè lo spazio in cui i personaggi aspettano di entrare in scena e restano in stand - by). L’altalena caratterizza la prima scena ed  emerge dal buio;  vi  si accomoda, di spalle, una donna in bianco. La presenza eterea ed impalpabile, la prima moglie defunta del vecchio professore, diventa cardine fondamentale della storia poiché collega a sé tutti gli altri personaggi, dalla figlia, al fratello, zio Vania appunto, alla servitù. Personaggio cardine, bianco e puro, perché la sua morte è motivo di cambiamento: il vecchio professore sposa una giovane donna bellissima, zio Vanja ne è eternamente innamorato e il rude medico ne è attratto. Dopo il suo arrivo nessuno lavora, nessuno si concentra, il caos regna sovrano. Se da un lato il passaggio del testimone sembra collegare il personaggio cardine defunto a quello giovane e bello, in realtà ci ritroviamo davanti  a quattro personaggi che appaiono come le due facce  di una stessa medaglia. Elena e Sonja, Vanja e Michail, il medico. Elena bella, annoiata e radiosa, Sonja brutta, lavoratrice e sentimentale, Vanja innamorato, folle e romantico, Michail affascinante e rude. Ciò che sorprende il pubblico è la scelta di connotare Vanja attraverso le sembianze di un attore piccolo, goffo, dalla voce petulante, dagli atteggiamenti infantili, folle, ridicolo, eccessivamente romantico e smielato, una macchietta teatrale che ricorda, a tratti, Charlie Chaplin. Ma pur sempre Vanja, personaggio eponimo il cui appellativo di zio compare, e questo è importante,  già nel titolo. Il pubblico borbotta: in effetti, nonostante l’ironia cechoviana, alla lettura del testo Vanja appare estremamente romantico, profondo, coraggioso. In realtà il regista ha voluto sottolineare proprio il decadimento apportato dall’intrusione di un personaggio come Elena, che mina continuamente l’equilibrio creato a gran fatica, attraverso il duro lavoro di Sonja e dello zio. Tutti i personaggi cominciano a mostrare atteggiamenti non prevedibili, fuori dalle righe, tranne la servitù, riferimento minore, pur sempre comico, ma fondamentale all’interno dell’intreccio. La conclusione riporta la storia allo stesso punto dell’inizio, ma il percorso circolare è stato ormai minato, il passato non potrà mai ritornare allo stesso modo. Sonja esplode in un grandioso monologo che ci fa apprezzare profondamente, oltre a tutta la compagnia, l’attrice Yulia Vysotskaya, e Vanja arriva a ribellarsi al vecchio professore- cognato, in procinto di vendere la proprietà. Colpi di pistola, urla, occhiali sbilenchi, capelli scompigliati, gesti sensuali, azioni che mimano l’atto sessuale, gonne sollevate ed abbigliamento intimo in bella vista: insomma il rigore, già inevitabilmente sbilenco all’inizio, in conclusione crolla definitivamente. Il caos esplode velocemente per poi ricomporre, altrettanto velocemente e apparentemente, l’equilibrio angoscioso e angosciante della situazione iniziale. La partenza frettolosa di Elena e del vecchio professore, le azioni rudi del dottore che sembrano punire Elena, portatrice inconsapevole di disordine, caratterizzano il pre-finale. L’accelerazione massima dello spettacolo decade improvvisamente nel silenzio, alla luce di una candela che si spegnerà. Il pubblico applaude a lungo. Innovazione e tradizione caratterizzano uno spettacolo tratto da un testo classico costruito in maniera originale, ma soprattutto con grande coerenza.  Se alcuni puristi storcono il naso, per altri questo lavoro rappresenta una vera e propria lezione di regia, di adattamento e di rinnovamento di un testo classico, in riferimento alla contemporaneità, pur mantenendone l’ambientazione ottocentesca e russa.