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PEGGY GUGGENHEIM DONNA ALLO SPECCHIO. Scena bianchissima, asettica, lucida, quella di Marta Crisolini Malatesta. Sul fondo un video ( lavoro di Alessandro Papa) che diventa protagonista, attore, seconda pelle dell’attrice. Lo spettacolo inizia con uno scorrere fluido e veloce di alcune immagini,  foto e diapositive che sembrano ripercorrere il Novecento, attraverso la storia, gli uomini, i personaggi, l’arte. Quest’ultima, vera grande  protagonista all’interno della storia e della vita di uno dei personaggi più noti ai cultori dell’arte contemporanea. Peggy Guggenheim dà il nome al lavoro di Alessandro Maggi, spettacolo che emerge dalle pagine del libro di Lanie Robertson, PEGGY GUGGHENEIM- DONNA ALLO SPECCHIO. Fiorella Rubino, ottima interprete dell’intera performance, coinvolge il pubblico, lo cattura subito, lo tiene stretto e dopo, in conclusione, lo convince. I lunghi applausi ne sono (a volte!) la dimostrazione. Peggy, nipote del famoso gallerista di origine ebraica ma trapiantato a New York, racconta la sua storia attraverso tre quadri scenici, così come l’autore del libro, Robertson appunto, prevede. Alessandro Maggi, spinto dalla ferrea volontà di Fiorella Rubino, adatta per la scena il testo e realizza uno spettacolo-quasi monologo che sorprende, non tanto per il racconto, ma piuttosto per la particolare fusione tra testo-attrice-installazione video.  La vita di Peggy attraversa le vite di alcuni dei più grandi artisti del Novecento, da Pollock a Picasso. Rapporti amorosi- jet set- gossip- denaro- ricchezza- fama: tutto questo ritorna continuamente. Ma Peggy è anche una moglie e una madre e la sua vita, trascorsa anche tra le mura del celebre Palazzo dei Leoni a Venezia, sembra essere il palcoscenico di un teatro, il set di un film. Donna esibizionista e problematica, appare, però, dotata del grande dono di capire, percepire, annusare, il talento artistico nell’animo di quegli artisti un tempo sconosciuti e dediti ad attività ben lontane dalla pittura.  Maggi parla di “carnalità”: la sensazione è che Peggy voglia “fagocitare”, inglobare in sé il talento scoperto in questi uomini, come se il suo corpo sia una prigione, una cassaforte. Il sesso diventa spesso il culmine della scoperta, affinché questi uomini non si distacchino mai da lei, affinché le loro opere restino sempre accanto a lei. Gli artisti si legano a Peggy attraverso continui rapporti caratterizzati dal sesso, dalla fama e dal denaro. Le loro opere vengono definite “i miei bambini”, quasi generate da questa unione in cui la madre famelica spinge l’arte a fuoriuscire dalle viscere dei suoi amanti e amati artisti. Ma Peggy è realmente una madre: la figlia, interpretata da Olivia Ordsen, è frutto di un altro rapporto legato al denaro, alla fama e all’amore-non amato. La presenza della figlia, e l’assenza del figlio, all’interno dei quadri che descrivono la vita privata di Peggy, appare come unico elemento realmente intimo e privato. La donna, infatti, spinge famelicamente anche la figlia a dare il meglio di sé nei suoi dipinti. Pretende, dunque, di scoprire del talento anche nella ragazza che, però, appare psicologicamente molto provata poiché divisa tra la propria personalità, la propria vita e la costrizione materna. L’incontro affettivo tra madre e figlia non avverrà mai, poiché il protagonismo di Peggy è preponderante, così come la vitalità folle e geniale insieme. Fagocita, ingloba, ingurgita: niente deve sfuggire al suo occhio, nessuno deve distaccarsi da lei. Estrosa, super attiva, egoista, è cosciente di aver un unico talento, quello di scoprire talenti. La voracità e velocità sono gli elementi fondamentali che caratterizzano i primi quadri dello spettacolo e, quindi, anche la vita della protagonista. Basti guardare alcune opere di Pollock, attraverso i garbugli di colore e gli intrecci, per comprendere Peggy Guggenheim. Ma la donna guarda anche al futuro: a chi cedere la sua preziosa collezione? Simbolo di una vita trascorsa nella ricerca e nell’intuizione, le opere d’arte, conservate a Venezia, non possono essere cedute a chiunque, soprattutto allo zio newyorkese ( anche se quella sarà l’ultima scelta). Attraverso questo spettacolo è possibile viaggiare dall’Europa all’America, volando sulle ali di una storia reale e fantastica insieme, mescolando immagini pittoriche famose a visioni allucinanti e allucinate. I personaggi del quadro si muovono, rispondono a Peggy, la seguono. La luna si avvicina, sul fondo, nel video, e  la scenografia bianchissima permette di inglobare in un’unica visione la figura reale dell’attrice con lo sfondo virtuale. Elegante e suggestiva la scelta di far muovere un maggiordomo, personaggio silenzioso ma indispensabile, che trasforma i cubi bianchi in diverso mobilio, man mano che lo spettacolo attraversa epoche e momenti di vita. Figurina scura, non solo per gli abiti ma perché compare nei cambi di scena a luci spente e grazie ad un gioco di ombre sembra stagliata sul fondo, senza spessore. La scelta del bianco lucido è utile a far riflettere sul palco e sulle pareti i colori dei dipinti che appaiono sul grande schermo in fondo e che, quindi, diventano i veri protagonisti della storia, incombendo sulla figura della donna. Il riflesso sulle pareti e sul pavimento genera un’ ulteriore rifrazione dei colori sui volti degli spettatori, coinvolgendo l’intera platea, che sembra essere “fagocitata” dentro la storia e dentro i dipinti. Uno dei pochi lavori originali di questo Festival, piacevole sia all’orecchio che alla vista. Unico neo: la presenza della figlia, tremolante e piangente, stona notevolmente nel confronto con la Rubino, provoca delle brusche fermate in uno scorrere di immagini e parole da cui il pubblico si lascia trasportare fluidamente.

UN VANIA
Ritorna sul palcoscenico del Festival il testo cechoviano. Stavolta, però, i personaggi,  nati dalla penna dall’autore russo, sono condotti in scena da un regista argentino, Marcelo Savignone. Il focus dedicato a Cechov, come già accennato, quest’anno è protagonista fondamentale dell’intero Festival e permette un confronto tra le realizzazioni sceniche e i lavori di diversi registi e compagnie, anche esteri, che affrontano lo stesso autore, o come in questo caso, lo stesso testo. ZIO VANJA, appunto, dopo la bellissima interpretazione offertaci dal regista russo Konchalovsky, è l’opera maggiormente rappresentata in queste due settimane. I prossimi due spettacoli che ci accingiamo a descrivere e a recensire sono un esempio di adattamento, trasformazione e presunta sperimentazione su un testo definito “classico”.
Il primo di questi esempi è UN VANIA, del già citato Marcelo Savignone, il secondo è UN GABBIANO di Gianluca Merolli. Curiosa la scelta di entrambi i registi di modificare il titolo in “UN”, dando, appunto, una connotazione generica a due adattamenti personalissimi. Il rischio corso, però, è che la trasformazione metta in evidenza una trama di base, quella famosa e cechoviana appunto, su cui si costruiscono regie ed interpretazioni contemporanee, tralasciando, però, caratteristiche, tematiche e finalità previste  dall’autore. Il primo spettacolo, UN VANIA, nasce nell’area della nuova drammaturgia argentina, applaudita e conosciuta dal pubblico napoletano e italiano durante il NTFI 2012.
Il regista afferma di aver studiato le scritture cechoviane nel corso di otto lunghi anni, cercando di trarre dai testi russi ciò che potesse inglobare anche la contemporaneità. La scena dello spettacolo argentino è caotica, poiché movimenti, parole, frasi, creano un turbinio vorticoso in cui gli spettatori vengono inghiottiti sin dall’inizio. Si sceglie di cominciare dalla fine, con un Vanja comicamente adirato, che brandisce un martello in aria, mettendo in luce il vecchio professore, interpretato da un manichino, scelta fortemente voluta proprio per identificare il passato stantio e mummificato. Ma in questo testo il passato è anche ricordo, è anche sicurezza per qualcosa di conosciuto e, nonostante limiti l’evoluzione, appare un porto sicuro in cui nascondersi per sfuggire ai cambiamenti deleteri. I protagonisti di questo spettacolo, soprattutto il regista che interpreta lo stesso Vanja, danno vita ad una loquacità, propria della lingua spagnola, che toglie il respiro, che vomita parole su parole, urlandole, sovrapponendole, ingarbugliandole, facendole coprire dalla musica, ricercatissima, quest’ultima caratterizzante i cambi di scena, di umore, l’alternanza tra sogno e realtà. Al centro della scena una porta senza parete: questo ci permette di vedere, ai lati, cosa succede dietro. Ma la porta rimane sottile separazione tra ciò che avviene nelle altre stanze e ciò che succede sul proscenio. Questa volta la storia si svolge attraverso il punto di vista del protagonista, cosa vede Vanja, come vede gli altri personaggi, cosa pensa, cosa sogna.  La porta, in posizione frontale o laterale,  offre anche noi, dunque, diversi punti di vista. Vanja ascolta dietro la porta ( il vetro opaco ci fa intravedere le ombre). Vanja bussa fuori dalla porta e gli altri personaggi si intravedono dal vetro, attraverso le ombre. Vanja e i personaggi vengono “inquadrati” da entrambe le parti della porta, quest’ultima posta lateralmente, limitando il suo spessore visivo. Il gioco di aperto-chiuso, ma soprattutto di luce-ombra è continuamente presente all’interno dello spettacolo. Basti pensare alle prime scene, in cui l’alternanza buio-luce caratterizza le battute e i cambi di posizione, basti pensare al lampadario perennemente spento e all’utilizzo, invece, di torce o piccoli punti luce. Buio-luce, passato-presente o presente-passato? Ma non solo, immaginazione o realtà, il “come deve essere” o “come dovrebbe essere”? Il buio addormenta e blocca improvvisamente il caos, soprattutto quando questo arriva ad un livello estremo, insopportabile, invivibile, come se la mente di Vanja fosse pronta ad un’esplosione violenta. La luce si accende quando, velocemente, le posizioni e il ritmo  sono cambiati. Insomma la sensazione è quella di una moviola che gioca ad accelerare e a decelerare il ritmo, attraverso una sorta di netta  dissolvenza cinematografica. Si sceglie anche di giocare con le torce, con le luci poste sotto un tavolo, di illuminare i volti dei personaggi, che sbucano dall’oscurità, accentuandone le rughe, i lineamenti marcati, le deformazioni grottesche. Immagini che ricordano il Velasquez, il luminismo del Rembrandt, il barocco italiano spagnoleggiante e le maschere grottesche. Il pubblico, quindi, viene catapultato subito nel caos, cerca di seguire il flusso della storia, poi viene bloccato improvvisamente dal buio, per riprendere di nuovo la corsa senza tempo. In effetti l’intero spettacolo sembra davvero una corsa senza tempo, in cui  personaggi e  attori si catapultano sul palcoscenico, tra movimenti ginnici, teatro danza, tango e movenze latine. La sensualità iberica riproduce una Elena dalle fattezze mediterranee, dalla gestualità ( come in tutti gli attori) accentuata, dalla loquacità eccessiva. Ventagli spagnoli completano l’abbigliamento che, a tratti, nulla ha a che fare con la Russia cechoviana. L’anziano professore, manichino inquietante, che subisce, sul letto matrimoniale, le avances sessuali della Elena “verace”, diventa il ridicolo punto di riferimento di tutti i personaggi ma, a differenza del testo cechoviano, diventa motivo di comicità esasperata e di disperazione comica. Insomma, Vanja si arrabbia per le decisioni di un manichino, Elena salta a cavalcioni sullo stesso, e la madre di Vanja indossa una parrucca gialla e nel bel mezzo di una scena, confida di aver avuto una relazione con lo zio di Vanja.
Nonostante alcuni elementi  interessanti, come lo scorrimento tra primo e secondo piano attraverso il mobilio con ruote che permette l’avanzamento del letto, il retrocedere della porta, il movimento del tavolo, o la scelta di rendere un personaggio fondamentale attraverso il manichino,  ma anche l’abilità recitativa e corporea di tutti gli attori (Marcelo Savignone, Paulina Torres, Maria Florencia Alvarez, Merceditas Elordi, Luciano Cohen), in conclusione la scelta di ricreare sul palcoscenico un caos circense, gitano, con tocchi di pochade, scenette comiche e telenovela satirica, una stanza da giochi infantili, confonde il pubblico. Bisogna, infatti, conoscere attentamente il testo originario per seguire la trama e capire quali cambiamenti, quali adattamenti e quali elementi ex novo sono stati inseriti all’interno di questo spettacolo, per dedurne e cercare di comprendere, poi, come le scelte del regista e il suo ambiente teatrale d’origine abbiano influenzato notevolmente questo lavoro, svelando una sorta di ironia sui personaggi simbolo della cultura europea. Per avere un’idea di alcune scene  cliccate su http://www.youtube.com/watch?v=yRrc9i7O2LY. ( foto di Cristian Holzmann).

UN GABBIANO.
Ancora un testo di Cechov per questo NTFI 2014. Ancora una volta un’interpretazione contemporanea dell’originale russo. Adattamento e regia stavolta sono affidati a Gianluca Merolli, che è anche interprete nei panni di Kostantin, figlio di Irina, attrice di teatro, madre snaturata che vive unicamente per essere acclamata sul palcoscenico. Testo importante, questo di Cechov, poiché in esso ritroviamo non solo il riferimento al passato distrutto, al futuro che si intrufola nella mente dei personaggi, sgretolando violentemente tutto ciò che hanno vissuto durante la loro vita; ma c’è di più. Il binomio campagna- città, che poi è simbolo di passato e futuro, presente anche nella vicenda di Zio Vanja,  va a sottolineare la distruzione apportata dal trascorrere del tempo, dai cambiamenti, dal ricordo di un passato amato e odiato, sereno ma senza evoluzione. Tra le tracce di Decadentismo, l’immagine dell’uomo incorrotto, a metà tra il fanciullino pascoliano e il bon sauvage settecentesco,   viene deturpata dalla sete del successo. All’interno di un discorso meta teatrale, emerge il concetto del “talento”, ricordato più volte anche dai personaggi di Zio Vanja. L’uomo talentuoso viene eretto a modello, a dio moderno, a immagine inaccessibile. Irina è un’attrice famosa e nessuno può osare contraddirla, Trigorin è lo scrittore di successo e ha talento, a lui è permesso distruggere la vita della pura Nina e trascinare con sé, in un vortice senza fondo, i personaggi a lei direttamente e indirettamente collegati. Kostantin è convinto che la madre e Nina non lo considerino all’altezza,  ma piuttosto uno scrittore senza talento. Saranno proprio i personaggi ancorati all’ambiente primigenio, cioè Mascia e Sorin, a valutare positivamente il giovane e infelice Kostantin. Nonostante le sorti sembrino apparentemente ribaltate, in realtà coloro che hanno scelto il futuro, il cambiamento, il successo, decadono:  Nina decide di diventare un’attrice, abbandonando la famiglia, i luoghi di origine, il lago, l’amore di Kostantin, per seguire il desiderio di successo. Ha una relazione con Trigorin, un figlio che muore, una carriera misera. Ritorna al lago e ritrova un Kostantin scrittore famoso. Lui morirà suicida, lei vivrà il sogno del teatro in povertà e sacrifico. Irina e Trigorin continueranno la loro relazione ambigua, e soprattutto continueranno a vivere, portatori mortuari di talento, ma anch’essi simbolo di due età e di due tempi a confronto. La compagnia diretta da Gianluca Merolli segue sostanzialmente il testo, ma invece di puntare sul concetto di “talento” , di distruzione, di contrasto tra passato e futuro, concentra la sua visione soprattutto su due elementi: solitudine e morte. In effetti questi due concetti sono presenti all’interno del testo e indispensabili nella creazione di alcuni dei personaggi, ma sono anche gli elementi più facilmente individuabili da uno spettatore poco avvezzo alla lettura del Cechov, o della letteratura settecentesca e ottocentesca. Questo significa portare alla luce  delle tematiche che permettono all’allestimento di rivivere in chiave contemporanea, quindi estrapolandolo dal contesto storico-culturale in cui è nato, e di inserirlo in una visione odierna. Ecco, perché, questo spettacolo si conclude con l’elenco dei nomi delle vittime dei recenti scontri civili a Kiev, unendo, quind,i la scelta cechoviana di un’ambientazione di fine Ottocento nella stessa città. L’idea, probabilmente, è quella di evidenziare la distruzione apportata dal presente, ma la connessione tra solitudine e suicidio con la guerra civile non è pertinente. Alcune delle scelte registiche, seppur non del tutto inedite, creano dei quadri in cui la visionarietà è coinvolgente. La scelta del trucco che rende i volti pittati di bianco cerone, le labbra e gli occhi scuri, trasforma gli attori in figurine da cabaret mitteleuropeo di inizio Novecento, dei mimi dai colori cerulei, quasi cadaverici. Alcuni dei personaggi vengono rappresentati attraverso dei fantocci di cartapesta e polistirolo, così come lo stesso gabbiano, simbolo fondamentale dell’intera storia. Questi pupazzi, però, sembrano impedire alcuni movimenti, rendendo a tratti goffi gli attori che, invece, nel corso dell’intero spettacolo dimostrano fluidità di movimento e grande coesione tra tutti i membri della compagnia, composta da Anita Bartolucci, Francesca Golia, Giulia Maulucci, Gianluca Merolli, Fabio Pasquini, Enrico Roccaforte, Nello Mascia. Notevole e faticoso lavoro di costruzione delle scene, così come è lodevole il lavoro fisico e attoriale di tutti gli interpreti, entusiasmante la scelta di utilizzare parte dello spazio in platea, di memoria pirandelliana. L’utilizzo dei neon per creare una tridimensionalità dal piatto fondo nero, poi diventa esagerazione nell’ultima scena, in cui il pontile del lago è ricostruito sul palcoscenico attraverso due filari di neon. I suicidi si gettano nel lago, rappresentato, a bordo palco, sul proscenio, da due vasche piene d’acqua. L’esito finale, anche qui, è molto caotico. Il pubblico comincia a distrarsi, non riesce a seguire la trama che, pur essendo quella di un testo classico e famoso, purtroppo non è da tutti conosciuta e gli spettatori, si sa, hanno sempre bisogno di un punto di riferimento drammaturgico. La sensazione conclusiva è che questo spettacolo sia stato costruito per immagini e quadri, come attraverso una pellicola cinematografica: a sostegno di questa tesi l’uso notevole di luci e musiche, quest’ultime di grande effetto e adatte anche ad un grande colossal cinematografico. Nonostante l’impatto iniziale fosse positivo, proprio per la ricerca scenica dell’allestimento, a metà spettacolo il testo cechoviano sembrava dimenticato, o meglio sembra essere l’ultimo punto di riferimento rispetto alla ricerca scenica, subendo un’ accelerazione che confonde e distrae, mescolando, miscelando, sovrapponendo, destrutturando.