Mi rivolgo ancora a nostro “padre” Pirandello, ma non tenendolo nella “testa”, piuttosto nel “cuore”: è il Pirandello dei “Sei personaggi...”, quando fa parlare la Figliastra che, nella terza parte, nel pre-finale, dice alla sorellina Rosetta, prendendole la “faccina” tra le mani:
Povero amorino mio, tu guardi smarrita, con codesti occhioni belli: chi sa dove ti par d'essere! Siamo su un palcoscenico, cara! Che cos'è un palcoscenico? Mah, vedi? Un luogo dove si giuoca a far sul serio. Ci si fa la commedia. E noi faremo ora la commedia. Sul serio, sai! Anche tu...
L'abbraccerà, stringendola sul seno e dondolandola un po'.
(p. 751, vol. II, edizione Mondadori, I Meridiani, a c. di A. d'Amico, 1993).

Avere nel cuore Pirandello, in particolare il passo sopra citato, per me, qui, in questa occasione, vuol dire deporre gli strumenti di ermeneuta, o di critico e storico della letteratura, in particolare quella teatrale, per quanto si possa di nuovo e ancora commentare, interpretare, rivelare, far anche propri, i significati dell'opera pirandelliana, e finanche di alcuni passi specifici come questo: per quanto sia un passo che ancora e sempre mi emoziona, muove in me sensi e sentimenti che vivono nella e per la dimensione teatrale. Il punto è tutto in quella presenza muta della bambina, inconsapevolmente portata sulla scena, dove, in quanto bimba, fa sul serio giocando, o a giocare, mentre la sorella “giuoca a far sul serio”: lo stato d'innocenza della bambina, “pura presenza” che finirà affogata nella vasca del giardino, sta tutto nella relazione tra finzione e realtà, mentre nella sorella adulta e “incestuosa” si contrappongono e si scontrano falsità e verità: questo conflitto viene giuocato (rappresentato, recitato), sulle tavole del palcoscenico, “sul serio”. Ma la Figliastra è un personaggio-attore, come sappiamo, narra e vuol re-citare la sua terribile vicenda, e in questa dimensione la colloca lo stesso autore che la vede, “di lontano”, cercar di ri-comporre la storia di loro sei personaggi. Dunque, nel cuore mi sta una faccenda decisiva per il teatro d'oggi: l'attore che sta, in situazione simbolica (finta), cercando una verità, che può essere, assieme, o partitamente, la verità di un personaggio, la verità del lavoro d'attore, la verità di un lavoro su se stessi: nell'ultimo caso è coinvolta la stessa realtà, quella della persona-attore, e del suo rapporto con il contesto della realtà tutta. In questo caso siamo nella dimensione e nella dinamica del teatro anche laboratorio, che è un'invenzione databile ai primi Padri Fondatori europei del Novecento.

Mi piace allora incrociare qui il passo pirandelliano, con le parole di Alejandro Jodorowsky, a commento di un koan da lui riportato in Il dito e la luna (Mondadori, Milano, 2009, pp. 50-51). Il koan racconta: Un monaco buddista chiese a Kejon: <<Come ritorna nel mondo normale un illuminato dopo aver meditato?>> Kejon rispose: <<Uno specchio rotto non riflette più nulla. I fiori caduti non torneranno più sul loro vecchio ramo.>>
Ed ecco quanto osserva sulla parabola zen Jodorowsky: Una volta mi è capitato di tenere un corso in cui tutti sono caduti in trance. Avevamo fatto una meditazione profonda. Alla fine, uno mi dice: <<Quello che abbiamo vissuto è formidabile, ma adesso, quando usciremo di qui, come potremo vivere nel mondo?>>. [...] Questo genere di domanda indica che colui che la formula non ha capito un bel niente. Significa allo stesso tempo: << Il tuo insegnamento è completamente inutile. Non mi è servito a niente. Con te avanzo un pochino, ma non appena sarò uscito di qui il mondo cancellerà ogni cosa, perché non è come dici tu. Che fare dunque?>>.
Dicendo: <<Quando uno specchio si rompe non riflette più nulla, quando i fiori cadono non torneranno più sul ramo>>, Kejon vuole dire: <<E' a te stesso che devi rivolgere la domanda. Smetti di preoccuparti per il domani! Vivi l'esperienza, e poi si vedrà! Se entri profondamente nell'illuminazione, va' incontro al mondo e saprai che cosa succederà. Una volta che si è rotto lo specchio, non riflette più nulla. Una volta che si è rotto l'ego, sparisce. Quando i fiori sono caduti, non tornano più sul ramo. Stanno per terra, al loro posto. Quando sperimentiamo un cambiamento, esso ci mostra il nostro nuovo posto nel mondo>>.
Per imparare servono tre condizioni. La prima è che si voglia acquisire una conoscenza, la seconda è che essa si possa acquisire per poi passare a metterla in pratica, e la terza è che si accetti il cambiamento provocato da questa nuova conoscenza. Le persone inciampano spesso su questo terzo punto. Fanno tutto ciò che serve per cambiare, ma quando arriva il cambiamento dicono: <<Che succederà quando ritornerò nel mondo?>>.
<<Ascolta! Fa' il tuo lavoro! Medita! Trova te stesso! E poi, va' nel mondo e vedrai! [...] Lascia affiorare la tua bellezza interiore e realizzati senza chiederti quello che succederà dopo o come reagirà il mondo!>>
Ognuno di noi ha sempre un proprio posto nel mondo. Ci sono ovviamente posti per i pazzi e per i sadici , ma ce ne sono anche per le persone che hanno lavorato su se stesse. Esiste spazio per le persone positive, per le coppie che lavorano per creare la propria divinità, per tutti coloro che non accettano la negatività. Sapendo questo, che posto ti scegli? [...] Tu, invece di avanzare di imperfezione in imperfezione e di errore in errore, cerca le falle del sistema, gli spazi di perfezione, e non avanzare se non sfruttandoli a tuo vantaggio. E' così che troverai la tua vera gioia.

Da Pirandello a oggi, dunque, la realtà del teatro, vissuta come ricerca su se stessi in dimensione simbolica-finzionale, si può poi riversare nella realtà-realtà, nella vita, il che equivale a trovare la propria verità, cioè autenticità, non solo come attori ma come persone. Potremmo chiamarlo, l'esito di tale ricerca, “illuminazione”, o, come Grotowski, “awareness”, che può portare all'assenza dello spettacolo, o ancora “via”, o “tao”,intesi, insomma, come autoliberazione e slegamento da molteplici orpelli e falsità, a-religiosamente, laicamente (anche se uno spirito religioso può non solo re-ligare, ma anche, appunto, s-legare!).
Questa è “una” possibilità di autenticità del teatro, oggi, specie per chi lo fa in prima persona, dando priorità all'esperienza pre-spettacolare (non solo nelle prove, che saranno decondizionate da tempi e costi, quand'è possibile, ma anche nel training, nel lavoro laboratoriale, nell'esercizio pedagogico); è un modo di trasformazione del teatro da cui penso non si possa prescindere, in un tempo in cui la sua necessità sembra venir meno sempre di più; è un modo tramite cui i cosiddetti teatranti, in specie gli attori, possono autotrascendersi, superare il proprio io, per immergersi autenticamente verso il mondo della vita, una volta usciti dallo spazio scenico.