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Il nostro Festival si conclude attraverso la visione di due spettacoli: il primo ISTRUZIONI PER MINUTA SERVITÙ è nato  dall’idea di Enzo Moscato, il secondo è  costituito dall’ennesimo ed ultimo Zio Vanja di Cechov, per la regia di Rimas Tuminas. Due mondi opposti quelli che chiuderanno il nostro diario “a puntate”, su questo NTFI 2014, criticato, sofferto, zoppicante, ma comunque, scenario di  un notevole afflusso di spettatori. Enzo Moscato è uno degli autori inseriti in uno dei focus festivalieri di quest’anno, quello riguardante, cioè, la drammaturgia napoletana, in questo caso quella contemporanea. Lo spettacolo di Moscato va in scena in prima mondiale, testo finalista della cinquantesima edizione del Premio Riccione.  In esso ritroviamo moltissimi degli elementi caratterizzanti la drammaturgia moscatiana, dalla commistione di stili e generi, alla lingua multi sfaccettata, al recupero di citazioni e di testi filosofici e letterari della tradizione culturale europea, alle musiche, al dialetto. L’idea di Moscato è quella di realizzare un “pamphlet scenico sui secolari rapporti conflittuali tra Signori e Servi, tra dominanza e sudditanza, sociale ed emotiva, tra gli Umani”, come afferma lo stesso autore, il tutto attraverso l’ottica  del rovesciamento, rintracciando il concetto foucaltiano del “rovescio dell’arazzo”, cioè la duplicità di visione attraverso una facciata rassicurante e un rovescio opposto ma veritiero.  Schopenhauer, Swift, Strindberg, Genet, Scarpetta, Mastriani, Petito, Eduardo,  Goldoni: ibridazione, contaminatio,  tutti elementi che Moscato cita e che fanno parte di questo complesso lavoro, complesso sia per chi lo realizza e lo porta in scena, ma soprattutto per il pubblico. Il concetto del rovescio, dell’opposto, presenta  degli attori che non seguono una trama definita, e questo diventa, inevitabilmente,  un problema. Ma al di là della banalizzazione del discorso testo- comprensione del pubblico, bisogna avere un approccio profondamente “altro” e “alto” per avere consapevolezza di ciò che si sta per vedere in scena. Il lavoro in questione, infatti, potrebbe essere letto attraverso tre livelli: uno basilare, che è appunto la tematica di fondo, cioè il rapporto tra servi e padroni, elemento che il pubblico riesce a seguire, pur nella frammentazione delle citazioni filosofiche, letterarie e teatrali, poiché è facilmente identificabile in scena attraverso il gruppo degli attori che interpretano i servi, e quelli che interpretano i padroni. Anche questa identificazione viene però ulteriormente rovesciata attraverso una visione parodica: i servi che descrivono i compiti e le azioni specifiche affinché i padroni siano felici e contenti, mostrando invece un’ ironizzazione caricaturale del comportamento esagerato e delle pretese di chi sta in alto. Insomma un padrone segue dei clichés, i servi eseguono, il risultato è che i servi si fanno beffe dei padroni, i padroni continuano a comandare. Dall’altro lato la faccia della medaglia di chi è ricco, di chi vive attraverso stilemi, regole rigide e si ritrova a piangerne le conseguenze. Come a dire, “anche i ricchi piangono”, non solo i servi! Esiste un secondo livello di lettura, meno narrativo o scenico, che è appunto il riferimento comparatistico, ma non diacronico: il rapporto tra servi e padroni viene affrontato in tutte le epoche, secondo modalità e punti di vista, sociali e culturali, differenti. Moscato allunga molto il momento drammaturgico legato agli autori partenopei, alla figura del Pulcinella (Servitore di due padroni!), forse consapevole che quel tipo di letteratura drammaturgica è più vicina al pubblico partenopeo. Anche in quel caso, però, lo spettatore in effetti compiaciuto sorride alle battute napoletane, ma forse, non collega il macro testo al micro testo.  Questo livello di analisi, inserito all’interno di uno spettacolo “da festival”,  è di difficile comprensione per un pubblico eterogeno, poco avvezzo all’estrapolazione concettuale; la presenza, in occasione di un Festival, di un pubblico composto attirato da novità o dall’evento, non aiuta di certo. Ecco perché bisognerà rivedere il tutto durante la prossima stagione, in cui questo spettacolo ritornerà in scena. Un terzo livello di analisi e comprensione è quello puramente scenico, in cui si evidenziano le scelte registiche e propriamente teatrali: anche la musica, sempre presente negli allestimenti moscatiani, è ricercatissima. In questo caso, come in altri suoi spettacoli, Moscato non crea una diacronia musicale, bensì “appoggia”, veste di particolari testi musicali ogni citazione che porta in scena: si va da “Moon River”, alla Callas, alla Piaf, a Mario Merola, Mina, fino alla colonna sonora di “2001: Odissea nello spazio”. La contaminatio presente in questo spettacolo non tiene conto assolutamente del percorso storico, bensì inserisce il tema della servitù all’interno di un contenitore in cui i vari blocchi sono legati tra loro, senza connessione temporale, andando avanti e a volte tornando indietro, in una struttura a mosaico. Questo spiazza il pubblico che ha bisogno di riferimenti temporali, di narratività, di personaggi facilmente identificabili. Inoltre, Moscato sceglie di utilizzare la meta teatralità, quindi, nel momento in cui lo spettatore segue uno specifico micro testo, appare in scena il regista, cioè lo stesso Moscato ( che è anche interprete), che blocca le prove, parla agli attori e alle attrici, recupera violentemente la contemporaneità. Forse mezzo utile a collegare le parti, forse volontà di rovesciamento ancora una volta. Il pubblico, purtroppo, appare distratto, rumoroso, gli applausi si limitano ad un’unica uscita degli attori. Il prodotto moscatiano è complesso, culturalmente elevato, ma eccessivamente frammentario, tanto da far sembrare lunghissima l’ora e quaranta prevista. Un plauso soprattutto alle due attrici che il pubblico napoletano, e non solo, conosce bene: Cristina Donadio, presenza abituale di alcuni spettacoli di Moscato, e Lalla Esposito, che emerge sicuramente tra le due. In scena anche Salvatore Cantalupo, Giuseppe Affinito, Caterina Di Matteo, Gino Grossi, Carlo Guitto, Amelia Longobardi, Francesco Moscato, Giancarlo Moscato, Giuseppe Moscato.

ZIO VANJA (RIMAS TUMINAS)
Si conclude così, il nostro Festival, con Rimas Tuminas, regista  lituano che ha regalato al pubblico napoletano uno spettacolo conclusivo senza precedenti. Spettatori in piedi, ovazione, applausi, commozione, brividi. E gli attori russi, sul palcoscenico, che sembrano sorpresi da tanto clamore. L’ennesimo Zio Vanja di questo Festival funziona. Quello conclusivo, quello che risolleva gli animi, quello che fa riflettere, discutere, pensare anche giorni e giorni dopo la visione dello spettacolo. Un testo classico, conosciuto, riproposto migliaia di volte. Attori russi. Perfetti. Dimentichiamo la lingua straniera, seguiamo la storia, ci immedesimiamo nei dolori dei personaggi, camminiamo sulla stessa scena, sentiamo gli odori, la pioggia, la polvere. Il regista sceglie di portare in scena le illusioni e i sogni spezzati di questi personaggi. Cechov si evolve, non più campagna, lavoro dei campi, ma città. L’ambientazione rappresenta due cardini fondamentali: da un lato il pianoforte impolverato che non suona, la polvere che si solleva ad ogni passo, sullo sfondo il leone, la statua simbolo della vecchia Madre Russia ( elemento che di certo non troveremmo in campagna!), dall’altro il legno. Legname, trucioli, seghe, martelli, chiodi, la pialla. Il lavoro, il dovere del lavoro, la fatica ed il sudore, elementi insiti nella mentalità della vecchia Russia, ma causa di dolore, di aspettative decadute, di routine, di oscuramento, di sofferenza. I personaggi vengono descritti attraverso immagini nuove, poiché stavolta non è  la sola didascalia a dettare legge. Sembrerebbe che ogni protagonista di questa storia sia “rovesciato” completamente, per far sé che emerga sulla scena l’interiorità e non il contenitore. L’immagine, il “simbolo”, il personaggio cechoviano, così come era descritto e voluto dall’autore, così come si cerca di rappresentarlo, a volte, fedelmente sulla scena, si sgretola. Insomma, tra purismo, classicismo, sperimentazione eccessiva, Tuminas trova il “giusto mezzo”. Il personaggio è portatore di sentimenti, di dolore, di decadimento, di passaggio, di evoluzione-involuzione. Curati nei minimi particolari, movimenti, gesti e utilizzo della scena, sono tutti elementi che testimoniano una regia accurata, estremamente poetica, ma che nasconde una disciplina attoriale ferrea, un perfetto possesso degli spazi, una coscienza dell’attenzione del pubblico costante, stretta in un pugno, mai allentata. L’utilizzo della musica è sapiente, poiché è presente, in sottofondo, durante tutto lo svolgimento dello spettacolo, ma mai invadente, mai accenna ad un superamento del limite, mai copre le voci ed i pensieri ed evidenzia i momenti più importanti. Tutti gli elementi di questo spettacolo sono omogenei, equilibrati, perfettamente incastrati e fluidi. Un vero capolavoro. Ottimi attori i cui nomi ci preme elencare:  Vladimir Simonv, Anna Dubrovskja, Jevgenija Kregžde, Marija Berdinskich, Ljudmila Maksakova, Sergej Makověckij, Vladimir Vdovi
enkov, Artur Ivanov, Jurij kraskov, Inna Alabina, Sergj Epišev. Elena, bellissima ma anima dolorosa, dagli occhi di ghiaccio e dalla pelle di porcellana, sguardo fisso e vacuo, spesso seduta per terra, con pose da fotografie d’altri tempi. Vanja, dolce, innamorato, rabbioso ma contenuto: sin dalle prime scene si potrebbe urlare “ questo è davvero  Vanja!!!! L’ho conosciuto, lo vedo!”. Telegin, a metà tra clown e Charlie Chaplin, la balia dagli abiti eleganti ed arcaici, più matrona della matrona stessa, cioè la vedova, caschetto nero, occhiale, valigetta, donna in carriera ed arrampicatrice. Il medico, affascinante ma rude, così come ci si aspetta dal testo, quasi un esploratore, un cacciatore, personaggio in realtà fondamentale, poiché è colui che ha compreso davvero la distruzione ed il degrado. Il professore, infantile, comico ed odioso allo stesso tempo.  Sonja, poetica, drammatica, divertente, agile, tenera, donna e bambina insieme, rivoluzionaria, speranzosa e pacifista. Non è corretto considerare la caratterizzazione di questi personaggi come innovativa, ma è più corretto considerare come e quanto il regista sia riuscito, finalmente, a sviscerare il loro vero essere. I sentimenti, le loro passioni, le loro delusioni, questi elementi sono universali. I personaggi sono contenitori di caratterizzazioni, di temi, di coscienze, di mondi culturali, la cui descrizione e narrazione devono essere universali, non rese a noi contemporanee. Ecco perché non muoiono mai. Tra ironia, contenuta ed elegante, come è giusto che sia, e sensualità, mai esplicita, lo spettacolo è permeato di una profonda poesia. Non servono effetti speciali, o luci particolari, tanto che la scena sembra spesso monocromatica e gli effetti luministici sono ben pochi, nonostante l’immagine conclusiva, su monologo di Sonja: un fascio di luce chiarissimo. Ma quando un lampadario tondo e luminoso, stagliato su uno sfondo nero, si trasforma, poi, in luna piena nella notte scura, quando un pezzo di vetro fumigato, attraverso cui guardano Vanja e Sonja, diventa filtro tra giorno e notte, o oscuramento del mondo, ombra che aleggia sugli animi, cosa potrebbe dare di più un banale effetto speciale? Basta, dunque, un fascio luminoso a concludere l’ultima scena, luce di speranza e di pace, più celeste che terrena, come gli applausi scroscianti, pronti a partire immediatamente dopo l’ultima battuta. E concludiamo questo Festival e questa lunga e difficile stagione, con l’immagine di una speranza, quantomeno scenica.