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Dal nome può non sembrarlo, ma “TeatroCentroCittà” è un convegno dal titolo eterodosso promosso per parlare in modo eterodosso non solo di Teatro ma anche di Città e di Nuovo Pubblico (quel 80% di nostri connazionali o 60% di europei che non frequentano teatri o musei o biblioteche o altro luogo cosiddetto di “cultura”).
Cioè per parlare di teatro in funzione e come articolazione ancora possibile della città, luogo prevalente ormai del comunicare ed associarsi, e quindi dei cittadini che le abitano e forse, non si sa per quanto tempo ancora, le animano e, soprattutto, di quei cittadini che non sanno o non vogliono sapere di questa forma antica di conoscenza.
Da qui la provocazione a chi di teatro si occupa, talora di teatro ci vive e comunque di teatro si interessa: “perché?” e “cosa vi-ci manca?”.
Al mattino gli interventi frontali hanno posto con intelligenza il problema e fatto il punto di una riflessione in corso ma ancora pudicamente sospesa, quasi a cercare altrove, e hanno così predisposto la provocazione.
Nella seduta pomeridiana la provocazione vera e propria, quasi una crime-scene, articolata in otto domande cui quattro tavoli di lavoro, divisi tra critici, artisti, tecnici e spettatori, dovevano dare se non una sentenza quanto meno una risposta.
È una questione di risorse?, ovvero di spazi specifici o urbanistici? Oppure la società urbana è ormai troppo frammentata e anche per questo dominata dai social network? È colpa (domanda ormai abusata) della scuola che non educa alla cultura oppure della incapacità di dare voce alle diversità? Infine la domanda più provocatoria di tutte, se vogliamo: ma vi interessa veramente parlare agli uomini e alle donne vostri concittadini?
Domande queste che hanno avuto il merito di sparigliare le carte portando i partecipanti oltre le specifiche competenze, in genere blandite nei convegni tradizionali, e di metterli su un terreno insidioso e talora squilibrante ma per questo, credo, assai stimolante e produttivo.
Dovendo forzatamente riassumere, e non me ne vorranno i convenuti, dalle numerose ma spesso convergenti opinioni e contributi, direi che l'elemento portante della crisi del teatro nella contemporaneità, crisi di ascolto non di parola, sembra discendere da una sua perduta autorevolezza, quasi non interessasse più, o poco, quello che in teatro si dice o si fa non perché troppo difficile (tra l'80% di cui sopra ci sono molte persone con studi superiori) ma perché inutile.
Una situazione, peraltro, che non sembra dipendere da quello che effettivamente si fa e si dice nel teatro contemporaneo, di valore almeno pari rispetto al passato, ma al fatto stesso che il teatro è come non più “riconosciuto”.
Il teatro in effetti è stato ed è un potente fattore di conoscenza e approfondimento, di indagine nelle zone profonde e anche oscure dell'anima o della psiche, ma è stato anche ed è una prassi ed un  processo artistico dalla natura condivisa e comunitaria, è dunque una funzione della comunità nel suo conoscersi e darsi un nome ed un senso.
Dunque si può forse concludere che il teatro si allontana e viene disconosciuto “non” per quello che fa nella comunità di riferimento ma perché “non” esiste più una comunità in senso pieno che possa essergli di riferimento, essendo la società moderna resa liquida ed individualista dal potente e quasi incontenibile influsso del pensiero economico ora solo capitalista.
Quindi la risposta alle domande “provocatorie” è sembrata essere comune, cioè che prima e non solo di riformare il teatro, va ricostruita e rintracciata una comunità, magari nuova e inaspettata nelle sue articolazioni, va cioè costruita una “città” ed un suo rinnovato “centro”.
Il teatro dell'Argine che, festeggiando per di più i suoi primi vent'anni di vita, il convegno ha organizzato nell'ambito del più ampio evento “Le Parola e la Città” che dal 10 al 19 luglio ha praticamente occupato Bologna, ha cominciato o sta tentando di farlo anche nella prassi quotidiana e nel intimo del fare teatro, da ultimo con lo spettacolo omonimo contestuale all'evento e a parte recensito.