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Come sempre Santarcangelo sa dar voce alle aspettative e, oggi forse più che un tempo, alle inquietudini che attraversano la scena italiana contemporanea più avveduta e sensibile. Inquietudini che generano aspettative e dunque riflessioni ed idee che producono parole drammaturgiche. A Bologna al convegno TeatroCentroCittà si è parlato di ricostruire una comunità per il teatro, un teatro cui riaffidare il compito millenario di capirne e rappresentarne il senso nella storia e nella contingenza artistica. Qui siamo alle prese con la ricerca di un luogo, fisico e della mente, per riattivare connessioni che sembrano spente in una Società sempre più disinteressata e chiusa, parcellizzata ed ossessionata, collettivamente “sola”. Cambiare il teatro, come nella tradizione della ricerca, ovvero solo ricostruire il teatro nella sua funzione essenziale, nei suoi riferimenti metafisici ed estetici, oltre la ricerca formale e al di là delle scelte artistiche e drammaturgiche, domande che si rincorrono. Molte domande dell'oggi, le risposte in farsi.
Visti sabato 19 luglio.

COLLETTIVO GINSBERG Asa Nisi Masa
Drammaturgia concerto che utilizza la musica per destrutturare il senso del discorso ed imporre una direzione liricamente eversiva alla narrazione di parola. Musica meticcia e ruvida che travolge parole aspre di amori rivoluzionari e crudi rituali con un impatto che da sonoro tende a farsi visivo, negli spazi dello Sferisterio. Protagonisti Cristian Fanti, la voce, Federico Visi, chitarre elettriche e Moog, Alberto Bazzoli, pianoforte, organo e Fender Rhodes, Gabriele Laghi, contrabbasso, Eugenioprimo Saragoni, batteria e percussioni e Riccardo Morandini, chitarra. Testi da Pasolini, Campana, ovviamente Ginsberg, Miller e Bukowski con incursioni nel romagnolo fiammeggiante di Raffaello Baldini.

MOTUS Caliban Cannibal
L'evento (forse) è accaduto e il mondo si è capovolto, non restano che naufraghi e naufragi che indagandosi cercano di riconoscersi compagni. Continua la riflessione di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò da La Tempesta di Shakespeare, filtrata dai secoli attraversati tra suggestioni e riscritture, ma non intaccata nella profondità delle sue domande su cos'è il potere, oltre la politica  e fin nei territori della metafisica o anche, se vogliamo dell'estetica e dell'arte che non è un altrove alieno e liberato (Prospero è un regista o un produttore?). “A” e “C” (Ariel lo spirito boschivo liberatosi nel corpo di Silvia Calderoni e Calibano, un Moahamed Alì Ltaief-Dalì che non è un attore ma un testimone di eventi reali) si interrogano tentando di riconoscersi e di riconoscere un luogo al di là delle chiusure identitarie. Si interrogano dentro una tenda da cui la drammaturgia ruba immagini rimontandole come in un film, quasi a ricostruire ed enfatizzare la finzione come macchina significante essenziale del mondo. Una tenda, simbolo del nomadismo come illusione di libertà e liberazione che naufraga di fronte alla inesausta ripetitività e riproduzione dei meccanismi del potere. Un lavoro drammaturgico dunque costruito sanguinettianamente sull'attore come persona in scena così da mostrare e dimostrare la finzione alienante e liberatoria. Ma la domanda resta non risposta, e la domanda è quella antica, lucidamente celata da Shakespeare nel meccanismo drammaturgico smontato, destrutturato e rimontato da Motus. La domanda è quella relativa alla cogenza del potere rispetto alla umanità organizzata in Società o comunità sociale, e quindi alla sua eventuale irreversibile necessità. Cambiare i fattori e umanizzare i protagonisti ma senza cambiare la struttura profonda accettandone l'inevitabilità, è la risposta forse anche ottimistica del bardo. Una bella drammaturgia, una narrazione quasi in transito tra noi e dentro di noi, la narrazione di un dopo che ancora aspettiamo. È infine una rispondere alla confusione e alla diffidenza verso una politica sclerotizzata in ceti e caste e per ricucire una condivisione in comunità che precede, direi filosoficamente, ogni concreto gesto politico.
L'incontro con i due drammaturghi, la mattina del 20, ha confermato la fatica e le esitazioni di un lavoro che viene offerto, quasi gettato al pubblico, perché venga condiviso e, forse, anche alleviato nella sua fatica e sofferenza.