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Parafrasando Beckett... “Dipartita finale” di Franco Branciaroli è un gioco letterario carico di riferimenti teatrale, poetici e filosofici ma anche un gioco di squadra fra quattro grandi della scena. In rigoroso ordine anagrafico: Gianico Tedeschi, Ugo Pagliai, Franco Branciaroli e Massimo  Popolizio. Una baracca lungo un fiume, caoticamente piena di oggetti di ogni sorte, un testo visionario, caoticamente ricco di altri testi, si spazia da Macbeth, ai film di Totò, alla fantascienza... Un mix eterogeneo che confonde lo spettatore, immerso ad ammirare la bravura dei protagonisti. Tre clochards, in una baracca nei pressi di un fiume, attendono a loro modo, il loro Finale: il Supino crede di essere immortale, aspetta il messaggio di un ipotetico gruppo di immortali in giro per l’universo, alla ricerca di altri immortali, alla ricerca di un senso, di nuove conquiste, ma non esiste un senso perché tutto svanisce in una bolla di sapone. Il Supino ascolta voci da un nastro registrato e come nell’ultimo nastro di Krapp, capisce che tutto svanisce; Pol e Pot cercano, invece, di prepararsi al meglio: uno dormendo, l’altro rimanendo sempre sveglio. Tra veglia e sogno, i tre personaggi attendono la morte e lei arriva, ridendo e sognando, a sua volta, la morte. Un testo surreale, con virate nichiliste, una rivelazione del nulla che siamo. Soltanto grazie a questa rivelazione è possibile percepire in tutto il suo dramma la contingenza del mondo. Il nichilismo, in tal modo, permette di comprendere la fugacità, quando essa è senza speranza. L’eterno entra nel tempo per svelarci che di lui non abbiamo alcun bisogno. La visione della regia crea una sorta di esodo in cui tutti siamo coinvolti. Che cosa resta? Gli oggetti che circondano questi uomini nella notte dell’uomo, gli oggetti resistono all’uomo e al nulla. E’ questa l’angoscia dell’uomo contemporaneo ...e allora? Comprendere che siamo creature effimere. Questo è il messaggio che Branciaroli, attraverso i testi dei grandi, comunica. In alcuni momenti scenici si avverte la difficoltà di seguire una narrazione un po’ frammentata, il testo a volte surreale, a volte letterario, presenta dei cali narrativi, ma questa difficoltà è compensata dalla bravura dei protagonisti. Emerge la bellezza scenica di Gianrico Tedeschi , alla veneranda età di novantaquattro anni,  controcorrente, in un mondo in cui se non sei giovane, se non ti mantieni giovane, non sei nessuno....Lo spazio scenico rappresentato diventa una metafora del nostro mondo contemporaneo, una discarica di oggetti accumulati nel tempo. Secondo le nuove tendenze del teatro contemporaneo il testo rivela uno stato di cose o una particolare realtà, senza creare una precisa struttura narrativa. Il tema è l’attesa. Tutto è fermo come in uno stagno come le nostre vite in certi giorni. Non si sceglie, non si cambia, non si lotta. Perché viviamo nell’illusione dell’eternità ma il tempo si fa continuamente beffa di noi e avanza comunque verso la dipartita finale. Sarà meglio tenersi pronti. La vita è un lungo viaggio verso la fine. Un “viaggio al termine della notte”, alla scoperta della musica della fine, del canto del cigno. Inutile illudersi, meglio affrontare la morte sorridendo, come fa la stessa morte, che arriva ovunque per tutti. La stagione teatrale milanese è quasi conclusa. E’ stata ricca di spunti e riflessioni. Tra poco partirò per le vacanze. Metto in valigia un libro che mi è caro, giusto per portare con me un po’ di buona vita: «Bisogna sentire nel fondo di ogni musica il motivo senza note fatto per noi, il motivo della Morte» (Louis-Ferdinand Céline)

Milano Teatro Franco Parenti 23 luglio 20014