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Siamo per la prima volta presenti al Festival di Volterra, in scena del 21 al 27 luglio, scoprendo, così, luoghi e produzioni inaspettati.  Invitati come partner dell'attivo gruppo  ReteCritica, riunitosi a Volterra il 25 luglio,  attualmente in continua espansione e pronto ad accogliere e conoscere

altre realtà critiche e teatrali italiane, siamo spettatori anche del Premio ANCT- Associazione Nazionale Critici di Teatro,  la cui cerimonia di consegna si è svolta il 23 luglio all’interno del carcere di Volterra. L’ANCT ha rivolto la sua attenzione a nomi noti come quello di Emma Dante, Musella/Mazzarelli, il Teatro Sociale di Gualtieri, Sara Bertelà, Cesare Accetta, Punta Corsara, Gigi Dall’Aglio, Serena Sinigaglia, Elio De Capitani, Paolo Graziosi, Filippo Dini, Mimmo Sorrentino e Teatro Stalker.  La nostra presenza si colloca tra il 23 e il 26 luglio, non permettendoci, quindi, l'osservazione delle produzioni e degli eventi andati in scena nei giorni precedenti ( TEATRO NATURALE? IL COUSCOUS E ALBERT CAMUS TEATRO DELLE ARIETTE, SIMURGH TEATRO DEI VENTI, PICCOLI SUICIDI IN OTTAVA RIMA VOL. I  e VOL II  I SACCHI DI SABBIA, HAPPY HOUR WOOSHING MACHINE, MA MÈRE L’OYE SCHELETRI E NINNA NANNA COMPAGNIA RODISIO). Nonostante l’assenza durante i giorni di apertura del Festival, riusciamo a vivere emozioni profonde, di cui non tralasceremo il racconto.  L’accoglienza “visiva” della cittadina di Volterra è suggestiva: luogo medievale, arroccato,  raggiungibile attraverso strade tortuose, dopo aver attraversato la campagna toscana, i paesaggi pittorici e le distese di girasoli. Quest’anno il Festival segue un preciso tema, un filo conduttore, un discorso profondo: la ferita. Dal crollo di alcune parti delle mura di Volterra, elemento caratterizzante e fondamentale per una cittadina medievale, poi Comune, al concetto di “lacerazione profonda” che attraversa gli spettacoli, gli attori ed il pubblico stesso. Le mura che sostengono e racchiudono il cuore di una città preziosa come Volterra, arricchita dalle manifatture di alabastro, simboleggia il contenitore-urna in cui ognuno di noi nasconde e preserva il proprio essere. Microcosmo e macrocosmo si fondono, attraverso una lacerazione che proviene dal profondo personale, ma eì che tocca l’umanità intera, storica e culturale insieme. Numerosi gli spettacoli e gli eventi ospitati all’interno del Carcere di Volterra, o meglio nella Fortezza volterriana che, intatta con le sue mura antiche ed i torrioni, ospita anche noi. La sensazione è quella di essere degli ospiti attesi a lungo, coccolati,  ma ciò che si percepisce é che la nostra presenza si intrufola tra dolorose ferite, quelle di presenze umane, ormai non più invisibili grazie al teatro. Il regista napoletano Armando Punzo lavora da più di vent’anni all’interno del carcere di Volterra, dando vita alla Compagnia della Fortezza; non è possibile immaginare dall’esterno ciò che abbiamo visto dentro. Al di là della curiosità morbosa che ogni spettatore cerca di reprimere, ma che in realtà è fortemente presente in ognuno di noi, entrare in un carcere non è esperienza fortunatamente quotidiana. Dalle procedure di ingresso alle autorizzazioni, ci si abitua, così, quotidianamente, a convivere con i detenuti che ci accolgono e che, dopo un po’, diventano presenza- assenza indispensabile. In scena, all’interno del cortile del carcere e di un’ala di questo, uno spettacolo dalle proporzioni monumentali. Non appena i cancelli si aprono, l’atmosfera ci permette di dimenticare il luogo in cui siamo ospiti. Accade esattamente ciò che viene spesso, e banalmente, definita “la magia del teatro”, ma stavolta il tutto ha proporzioni inimmaginabili. Lo spettacolo SANTO GENET, ispirato all’opera di Genet, va in scena in anteprima nazionale dal 21 al 25 luglio, ogni giorno alle 15. Si aprono i cancelli: due file di marinai ( i detenuti appunto) ci accolgono all’interno del cortile del carcere. Armando Punzo, drammaturgo e regista, attore dalla faccia cerulea e dall’abito nero, appare nelle vesti di un Virgilio gotico dal sorriso ammiccante, che ci accompagna in Purgatorio. Tutta la costruzione scenica dell’intero spettacolo si basa sulla scelta di colori brillanti, accesi, surreali. Il surrealismo appunto di un Dalì, su un’architettura alla De Chirico, sono le prime sensazioni visive che ci saltano in mente. Un intero cortile bianchissimo, tappezzato da una copertura bianca, in cui, sul fondo, appare un ingresso immaginario di un tempio-chiesa-edificio dalle aperture incerte, come voragini nere. Un’agorà dalle sembianze neoclassiche e barocche insieme, si estende lungo tutto il cortile del carcere, ricordando la struttura rettangolare delle sale o dei giardini rinascimentali in cui si mettevano in scena i grandi marchingegni teatrali. Ed un grande marchingegno appare appunto questo spettacolo che esteticamente è tesoro prezioso per gli occhi, ricco di ornamenti, di abiti finemente decorati a mano, di volti pittati per essere anch’essi opere d’arte nell’opera d’arte. Una corte in cui il Rinascimento apparente lascia la strada al barocchismo esagerato, nato dalla fantasia umana e personale. Ci si aspetta, da un momento all’altro, l’apparizione del Re Sole, ma qui l’unico Re ferito è l’umanità intera. Dame del peccato,  bambini - attori dalle fattezze di putti dorati con strumenti musicali, il Rococò vomità stucchi e colonne, simbolo della decadenza, al centro la statua della Vittoria, o meglio, la Giustizia alata dalle braccia conserte. Poi un lato della grande corte esterna si apre ed entriamo nei corridoi. Le celle, trasformate in piccole stanzette, celle di vita, immagini esageratamente barocche in cui il biancore accecante dell’esterno scompare, si tingono di rosso, si rivestono di broccato,  velluti,  dorato, di specchi. Un lungo corridoio che percorriamo più volte per riuscire ad osservare tutto ciò che succede dentro le singole stanze. Teatrini nei teatri, baldacchini, stanze private, troni, tende, quadri, statute, e ancora specchi. Ogni spettatore è costretto a guardarsi. Ogni protagonista è costretto a fare i conti con la propria ferita. Impossibile, qui, descrivere ogni singolo momento del racconto scenico e visivo, in cui suoni e voci degli attori e degli spettatori, si sovrappongono in un turbine di anime deliranti e dolorose, su un sottofondo di immensa poesia. Tantissimi gli attori- detenuti,  Italiani, Europei, Orientali, ognuno di loro recita Genet, recita ed interpreta la propria ferita, ognuno con un accento diverso. Ma la ferita è un non luogo, non ha radici. In effetti quello di questo spettacolo è davvero un non-luogo, onirico e surreale, poiché l’anima vera, quella delle pareti del carcere, è rivestita dalle scenografie, tappezzata nel vero senso della parola, ingioiellata da altarini, ritratti ed ex voto. Gli stessi attori sono “rivestiti”, nel volto, negli abiti, nei capelli. La conclusione è prevista di nuovo all’esterno: il bianco accecante si ripropone ( purezza o falsità che annulla le sfaccettature?), ed accoglie tutti gli attori che hanno lasciato gli spettatori con un ballo, da corte appunto. Fiori distribuiti, fiori sfiorati, fiori sfioriti, come le anime di questi uomini. Ballo finale in cui ogni personaggio danza con il proprio fantoccio di cartapesta in braccio, come in una processione religiosa del Sud Italia, tra il fasto delle corti persiane e quelle  rinascimentali. Musiche dal vivo eseguite da Andrea Salvadori, costumi di Emanuela Dall’Aglio, opere scenografiche di Mario Francesconi; accanto ad Armando Punzo, l’attrice Isabella Brogi e i tantissimi attori detenuti, che è  impossibile elencare qui. Il 26 luglio lo spettacolo si sposta al Teatro Flacco di Volterra: tripudio e scommessa vinta anche in uno spazio al chiuso e limitato.
Ancora all’interno del Carcere due spettacoli, in cui la ferita è fondamento: PITUR, secondo movimento di Mario Perrotta (24 luglio), e IN-COLUME/ VOLTERRA della compagnia Balletto Civile ( 23 luglio).
Entrambi gli spettacoli si svolgono in una piccola aerea esterna del Carcere, lo Spazio Leopardi,  su un piccolo palco tra le alte mura della Fortezza, sormontate dalle guardie di ronda. Tra il pubblico, accanto a noi, anche gli attori-detenuti che, dopo la fatica dello spettacolo, osservano e assistono da spettatori agli altri lavori. Rincontriamo ancora Mario Perrotta, dopo l’emozionante spettacolo osservato durante lo StartUp Festival a Taranto, a settembre scorso. Nel primo movimento, UN BES, il racconto della vita del pittore Ligabue, era costruito tra parole ed immagini, attraverso una struttura fortemente narrativa, legata alla performance pittorica. Nel secondo movimento, PITUR appunto, Ligabue-Perrotta non è più solo. In un angolo del palco, seduto, al centro di una cornice di ferro, il protagonista dirige i fantasmi della sua mente. In scena i corpi danzanti e parlanti di alcuni attori che utilizzano ancora una volta i pannelli mobili, simili a quelli adoperati nel primo movimento, in cui l’attore raccontava e disegnava sui grandi fogli bianchi della sua vita. Adesso il foglio è sostituito da teli trasparenti su cui vengono proiettate immagini, storie, personaggi. In scena ritroviamo i temi trattati anche nel primo movimento, ma questa volta con un’ intensità visionaria che a tratti, però, non riesce a coinvolgere il pubblico impreparato. Il pittore, ripercorrendo inesorabilmente ancora una volta l’amore per la donna, intesa sia come madre che come amante, attraverso la sindrome dell’abbandono, era solito travestirsi con abiti femminili, affinchè potesse rivedere la donna amata, sfiorarla con la mente, rivivere la sua figura. Intensa la scena della follia in cui Ligabue-Perrotta ripete di volersi strappare la pelle dal viso: gli attori strappano violentemente le tele dai pannelli mobili, si travestono da donne, si distaccano da lui. Questo secondo movimento inevitabilmente presume una conoscenza del primo, o meglio, della storia del pittore, affinchè il pubblico possa comprendere e vivere a fondo l’intensità e la commozione provata da coloro che invece conoscono bene lo spettacolo precedente, o meglio, la ferita profonda e personale di questo artista.
Ancora nello spazio Leopardi in scena la compagnia Balletto Civile, che ha coinvolto dei giovanissimi di Volterra nel lavoro dal titolo IN-COLUME/ VOLTERRA. I ballerini e i performers, accompagnati dalla violoncellista newyorkese Julia Kent, si esibiscono sulla drammaturgia di Alessandro Berti. Anche in questo lavoro il concetto di ferita è profondamente presente: l’idea di utilizzare la preposizione IN, che in qualche modo sembra essere “privativa”, serve a comunicare il senso di una ferita che, ancora una volta, proviene dal microcosmo personale, ma descrive un’ umanità in declino. Se Ligabue racconta la sua ferita privata, qui si gioca sui temi generali. Nonostante numerosi luoghi comuni, come la guerra, il bene e il male, le tre età della vita, il futuro dell’umanità dipende dal suo passato. Nonostante la realizzazione di uno spettacolo etichettato sull’ormai comune definizione di “teatro- danza”, e quindi meno comprensibile da un pubblico poco avvezzo al genere, alcuni elementi sembrano emergere fortemente. L’incapacità e l’impossibilità della comunicazione  dei nostri tempi emerge nella figura di una ragazza, la quale ripetutamente cade, scivola, non riesce ad alzarsi sulle sue gambe, non riesce a raggiungere il microfono. L’incomunicabilità si scioglie in un urlo profondo, sonoro, che parte dalle viscere, che sembra quello dei popoli medio orientali, quello delle tribù berbere;  un urlo e la ragazza finalmente comunica al microfono e quindi al mondo, sostenuta da una bambina. Immagini- simbolo, a tratti inquietanti, basti ricordare la donna- mamma e il sottofondo con i rumori e le urla  della guerra, o i momenti di elevazione scenica come quello in cui i danzatori girano vorticosamente facendo aprire ad ombrello i cappotti che indossano ( e anche qui le danze berbere). Oltre alla difficoltà di comprensione da parte del pubblico e all’ inevitabile inesperienza dei bambini sulla scena, la conclusione fa implodere il tutto. Il protagonista, a cui è affidato il compito di interpretare alcuni brani della drammaturgia, si dilunga, dando spesso le spalle al pubblico,  in considerazioni personali, come la metafora “vita-mandorla”, che stridono con la visione universalistica delle scene precedenti, oltre a ritardare eccessivamente la conclusione.
La bellezza di Volterra, e della Toscana intera, ci permette di accostare agli eventi teatrali anche una visita ad alcuni luoghi della città, tra monumenti, il Palazzo dei Priori, la Pinacoteca, il museo etrusco, il museo dell’alabastro, il Battistero di San Giovanni. Proprio quest’ultimo ospita un’installazione audio-video che rende il luogo di culto estremamente affascinante. Di forma circolare, l’edificio presenta l’altare adorno di suppllettili bianche e candide, alle pareti tavole che fanno riferimento alle fasi della costruzione di uno spettacolo teatrale, metafora della vita, fino al soffitto, su cui alcune immagini tridimensionali vengono proiettate nell’oscurità. Il mondo, lo spazio, la Terra, l’Universo, l’occhio di Dio, tra ferita ed universalità, all’interno del luogo di culto in cui si riceve il battesimo. Ancora storia dell’arte, all’interno della Pinacoteca volterriana, dove ci accingiamo il 24 luglio, in tarda serata. Alle 22.30 appuntamento all’interno della sala che ospita la famosa “Deposizione” del Rosso Fiorentino. Lezione di arte notturna ad opera dell’entusiasmante Bianca Tosatti, critica e storica dell’arte, prima di scendere giù, nell’Altana della Pinacoteca. Protagonista il gruppo  Teatri 35, ben conosciuto a Napoli, in collaborazione con Caroline Peyron e Simo Capecchi, con lo spettacolo IL PANNO ACOTONATO DELLO INFERNO, TABLEAUX VIVANTS DALL’OPERA DI PONTORMO E ROSSO FIORENTINO. Ciò che colpisce, al di là di questa performance naturalmente non recitata, ma “mimata” poiché riproduce esattamente più di 20 immagini pittoriche, è la presenza di numerosi artisti tra il pubblico. La prima fila è occupata interamente da spettatori che, quaderni, album e taccuini alla mano, osservano lo spettacolo e realizzano sorprendenti e veloci schizzi. La tecnica di questo gruppo di attori è quella di tenere perfettamente a mente l’immagine da creare, riprodurre ed immortalare ogni volta. Attraverso dei gesti e dei movimenti perfettamente sincronizzati, gli attori si muovono su un tappeto di stoffe di diverso colore da cui, velocemente e sapientemente, traggono i “pezzi” da annodare sui loro corpi o capi, realizzando esattamente gli abiti, le posture, le espressioni, i chiarosuri, descritti nei dipinti originali.
Tra arte e teatro, la monumentalità della scena teatrale, a Volterra, si evidenzia soprattutto nello spettacolo itinerante LOGOS/RAPSODIA PER VOLTERRA. Come detto precedentemente, alcune delle mura della cittadina crollano. Si crea, così, dopo aver descritto ferite personali, universali, metaforiche e surreali, una ferita visiva che prende vita tra le vie della città. Il 25 luglio Volterra diventa protagonista di un evento di teatro collettivo, in cui tutta la città si mette in scena. La collaborazione nata tra Armando Punzo, Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti di Archivio Zeta, dà vita a qualcosa di sorprendente.  Il progetto si ispira all’evento svoltosi nel 1981 in Sardegna, quando Maria Lai, celebre artista del paese di Ulassai, chiese ai cittadini di legare le proprie case alle altre e alla montagna franata. Dunque, dall’opera LEGARSI ALLA MONTAGNA, nel 2014 si arriva a Volterra: drappi rossi scendono giù, da giorni, dalle mura antiche dei palazzi di Piazza dei Priori, per poi annodarsi al centro dello spazio, durante una performance suggestiva svoltasi il 25 luglio ed iniziata a colpi di sassi bianchi. Si chiede alla popolazione di sedersi al centro della piazza, scandendo il ritmo con colpi di sassi bianchi che lasciano il segno per terra. Gli stessi sassi che vengono portati, poi, in processione per le vie della città, fino alle mura, sulle quali, come in un rito pagano, essi vengono adagiati, come amuleti di sostegno. La città si trasforma in labirinto, il grande nodo centrale viene tagliato. Brandelli di nastri vengono condotti per le vie della città, ed ogni abitante, ogni artista, ogni giornalista, si unisce alla processione, tenendo per mano il drappo e lasciandosi trascinare. Nelle orecchie gli auricolari: grazie alla parola di Carlo Infante, esperto di performing media, la performance si trasforma in Walk Show. In qualsiasi punto del percorso riusciamo ad ascoltare le interviste, i commenti, le considerazioni di Infante e delle persone che si soffermano al suo microfono.  Azione corale in cui protagonisti sono anche dei cittadini coinvolti in un laboratorio teatrale: frammenti testuali e musicali si intersecano con un nastro lungo più di venti chilometri. Si arriva su, fino in cima, a strapiombo sull’antico teatro romano. Il pubblico osserva le macerie  ancora vive del passato e dell’umanità, lanciando l’ultimo lembo di drappo rosso giù per il dirupo, fino ad agganciarlo alle antiche colonne. Immagine simbolo che è impossibile descrivere a parole, ma che vive esattamente al tramonto, tra le colline e le montagne, così come durante le antiche tragedie greche.
Il nostro Festival si conclude con questo spettacolo, ma in realtà le numerose attività parallele vivono attraverso i vari luoghi della città: dal Convegno svoltosi nello Spazio Dalì del Carcere, durante il quale si è discusso della memoria storica e del lavoro di archiviazione legato anche al teatro, sottolineando il complesso e fondamentale processo di archiviazione del materiale afferente alla Compagnia della Fortezza e avviato dall’associazione Carte Blanche, dal Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna e dalla Soprintendenza Archivistica per l’Emilia Romagna e per la Toscana. Fino alle installazioni video, al CROWDESIRE,  il lancio delle lanterne nella notte, evento legato al progetto di crowfunding per la ricostruzione delle mura di Volterra, di cui fanno parte lo spettacolo Logos/Rapsodia per Volterra e la maratona poetica per Volterra. Ma anche i dopofestival nel cortile dell’Istituto Niccolini e lo spettacolo- racconto del Teatro delle Ariette, dal titolo SUL TETTO DEL MONDO NOZZE D’ARGENTO CON LE ARIETTE. E ancora le iniziative editoriali, quelle artistiche e tanto altro.
Affinchè la ferita universale si sani, Volterra lascia il suo profondo ed indimenticabile contributo.
www.volterrateatro.it

VOLTERRATEATRO 2014
I TEATRI DELL’IMPOSSIBILE
FESTIVAL INTERNAZIONALE DI TEATRO MUSICA DANZA VIDEO POESIA ARTE E CULTURA
21-27 LUGLIO 2014