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Se c’è un segno che caratterizza il lavoro teatrale di Turi Zinna è la profonda, autentica, quasi programmatica serietà con cui continua a impegnarsi, spettacolo dopo spettacolo, nel tentativo di esprimere il genius loci di Catania, la sua città, il magma incandescente e fertilissimo di storie, vite, esperienze, segmenti storici, vicende di politica, di economia e malavita, ma anche colori, sapori, ricordi, con un linguaggio che non sia gratuito e sia invece profondamente adeguato alla contemporaneità (sua, nostra, del pubblico). Un sentimento politico forte, quasi un rovello: Catania è una città straordinaria in cui i contrasti sono violenti, i colori forti, ma la memoria è cortissima e, molto spesso, “dimenticare” o coprire con una bella cortina di “folklore” (seppur talvolta insanguinato), tirate le somme opportune, conviene a troppa gente. Si pensi alla Catania del primo novecento divenuta in breve profondamente fascista e che per molti versi non ha mai cessato di esserlo, si pensi all’incredibile vicenda di San Berillo, l’enorme quartiere popolare del centro di Catania raso al suolo (la città sventrata nel suo cuore, i cittadini trasferiti in massa in enormi casermoni di periferia e privati della loro identità culturale, appalti, cemento ed enormi interessi in gioco, un “centro direzionale” mai finito), si pensi al potere violento e oppressivo della mafia e della borghesia mafiosa (tantissime vittime, tra le quali Pippo Fava), e si pensi infine alle profonde difficoltà che vive oggi questa città che non riesce ad esprimere ancora e definitivamente le sue straordinarie potenzialità, economiche e culturali, di grande porto del Mediterraneo. Ecco, questa città è il mondo di Turi Zinna, il mondo della sua poetica ed è un mondo che, a raccontarlo col suo stesso linguaggio, accettandone in modo acritico lessico e regole, finisce col chiedere di farti “i cazzi tuoi” e, se proprio non puoi star zitto, ti chiede di parlare d’altro e non vuole amore ma obbedienza, complicità, connivenza, falsa fedeltà. Unica via d’uscita la ribellione (anche per amore), il rifiuto che si esercita mettendo in discussione proprio la radice di ogni obbedienza, di ogni appartenenza acritica e passiva, ovvero la lingua attraverso cui il potere esercita la sua violenza. Non parliamo del dialetto catanese in quanto tale (che, soprattutto nei quartieri popolari, è ancora vivo, florido e vitale nella sua ricchezza e nella sua seducente musicalità) e nemmeno dell’italiano regionale che si parla sotto l’Etna (anche questa è una lingua sapida e straordinariamente viva), no: parliamo piuttosto del codice implicito di connivenza che s’impara da ragazzi (e se no sono guai), della lingua ruffiana e bugiarda degli uomini di “panza”, oggi in gran parte, e definitivamente, forniti di colletto bianco, parliamo della lingua furba di chi gestisce gli affari e i pacchetti di voti che escono dagli enormi quartieri periferici, parliamo dell’italiano vuoto e inacidito di chi ha scelto di non lottare più e s’è buttato alle spalle il dolore di questa città.
Ecco, tutto questo vien fatto di pensare in margine a “Esercizi di prosa ballabile”, lo spettacolo di narrazione, di e con Turi Zinna, che s’è visto sabato 30 agosto nello spazio dell’Artemision, proprio nel cuore del centro storico di Siracusa (il contesto è una piccola rassegna di teatro contemporaneo organizzata dalle associazioni “Greca Levante” e “Verso Levante”). Uno spettacolo di narrazione in cui l’autore e attore catanese (col prezioso supporto dei due artisti del suono, Fabio Grasso e Giancarlo Trimarchi) racconta prima l’infuocata storia d’amore e morte, con tanto di duello rusticano “dai rivolti metafisici”, tra “Turi u bastaddu” (venditore ortofrutticolo ambulante, puro nella sua ardente passione e con fattezze pasoliniane) e “Franco Nero” (camionista, masculu e uguale come una goccia al celebre attore) per la conquista della giovane “Agatina puntini puntini” (figlia di un noto e quindi, necessariamente, anonimo professionista della città) e poi la storia del barbiere Gioacchino di San Berillo che, per un banale scambio di persona, è prima ferocemente pestato a sangue dai fascisti e poi umiliato dalla borghesia della sua stessa città. Le due storie non sarebbero granché interessanti, eppure lo spettacolo di Zinna riesce a emozionare davvero e diventa interessante per il modo in cui questa storie vengono interpretate, smontate, proposte. Ed ecco che si ritorna all’assunto di prima, ovvero al segno politico precipuo di Zinna, alla sua attenzione alla lingua che non si esplicita nel tentativo di distruggerla in quanto tale, ma più radicalmente nel tentativo di distruggerne la carica mistificatoria e svelarne, con una torsione espressionistica più che ironica, le disumane mostruosità che la abitano e vi sono accuratamente custodite. Un tentativo forte, eseguito senza timidezze, pur trattenendo ed anzi rileggendo ciò che è ancora sano nella lingua di questa città, ovvero musicalità, ritmo (la prosa ballabile), apertura al mondo e alla contemporaneità. In tutto questo lo spettacolo di Zinna e, complessivamente, il suo linguaggio teatrale sono interessanti e fecondi, anche se talvolta indeboliti da un eccesso di intellettualismo e da una carica ideologica che deborda e finisce proprio col depotenziare la forza poetica e politica dell’atto teatrale in sé.