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Ci sorprende ancora una volta Marco Martinelli con questa sua ultima drammaturgia, ideata insieme ad Ermanna Montanari, non nel senso che sia una sorpresa la qualità della sua scrittura letteraria e scenica ma perchè provoca stupore nel suo aprire strade nuove. A partire dall'oggetto stesso della peripezia scenica, così implicato con l'oggi in tutte le sue insorgenze e ricadute anche storiche, sociali e politiche tout court, che lasciava presagire un'approccio

inusualmente diretto con la fabula, quando invece l'essere nello spirito dei tempi, certo non eccellenti come gli attuali, era stato sinora, per Ermanna e Marco, prevalentemente trasfigurato attraverso la narrazione ed appunto la riarticolazione della sintassi e della parola letteraria. Sto ovviamente parlando di Rumore di acque, ultima fatica di Marco Martinelli, che ha esordito al Teatro Rasi il 10 luglio nell'ambito del “Ravenna Festival 2010” (una sola replica l'11 luglio), da lui appunto scritta e diretta su ideazione condivisa, come detto, con Ermanna Montanari. In scena con un bravissimo Alessandro Renda, frutto già maturo dell'ormai antica esperienza degli ubiani palotini ed unico protagonista, gli ormai non più sorpendenti Fratelli Mancuso e le loro musiche “originali”. Ermanna cura anche lo spazio, le luci ed i costumi insieme ad Enrico Isola che è responsabile della direzione tecnica mentre Andrea Villich è il tecnico del suono. Seconda tappa del trittico Ravenna-Mazara 2010 del Teatro delle Albe, tre opere che, come scrivono i curatori Marco Martinelli, Ermanna Montanari e Alessandro Renda, “in maniera differente prendono Mazara del Vallo come simbolico luogo di frontiera e punto di partenza per un affresco sull'oggi”, Rumore di Acque affonda il suo sguardo sulle tragedie dell'immigrazione cosiddetta 'clandestina', che sulle rotte dall'Africa alla Sicilia lascia una scia, che il potere vorrebbe invisibile, di morti senza nome. Ci si aspetterebbe dunque un teatro, classico ormai, di narrazione ma di nuovo Marco Martinelli non ci narra gli eventi ma bensì ci guida, anzi ci induce a percepire, e così ad acquisire, il loro significato più profondo e quindi più autentico. Non una narrazione dunque, poiché al centro della scena Marco Martinelli colloca non un 'narratore' ma bensì un 'personaggio' che, quasi pirandellianamente, è la reificazione nel contesto drammaturgico di un sentimento, di un'angoscia o di una rabbia intima che in questo modo egli si pone di fronte e pone di fronte a noi. Non una drammaturgia a 'tesi', si potrebbe anche dire, ma un accompagnarci alla risposta che è dentro di noi. Attorno a questo personaggio, un demoniaco, ma anche 'sconfitto', generale incaricato, da un fantomatico Ministro degli Inferni, a catalogare ed 'archiviare' i morti e i dispersi delle traversate, Marco Martinelli costruisce, pertanto, una sintassi drammaturgica che travolge l'apparenza monologante ed i tempi della narrazione per articolarsi dialogicamente e dialetticamente nello spazio, alienante ed insieme coinvolgente, che si apre tra il personaggio e i suoi fantasmi e, specularmente, tra noi e le nostre 'negazioni', spazio anche scenicamente configurato nel continuo rimando con le musiche dei Mancuso che, sorta di coro greco, inducono e man mano realizzano una nostra nuova e anche dolorosa consapevolezza. In effetti questo moderno Caronte 'catalogatore', che in quest'isola miticamente collocata al centro delle rotte di una umanità che, dallo slancio di un antico Odisseo, degenera nella disperata ricerca di una fuga dallo sfruttamento e dalla morte e che, infine, è proprio la morte che incontra, Caronte che 'banalmente' compie il male di cui è incaricato, prende coscienza della profondità delle storie che si accalcano sotto la tragica piattezza dei numeri e forse, vogliamo crederlo, prende coscienza anche della profondità della sua propria coscienza. Coscienza ovvero conoscenza che è nemica dei tanti burocrati della violenza che hanno attraversato la storia dell'umanità e che, puntualmente, riemergono quando è più facile nascondere sotto la lapide dell'ignoranza le vere conseguenze delle nostre azioni. Eseguiamo semplicemente ordini e dunque non dobbiamo, non ci interessa conoscerne le conseguenze. Ecco allora che la sua voce, meccanica ed alienata nel suo essere forzata nei toni bassi che fanno ancor più esplicito contrappunto alle tonalità mediterranee, acute, misticheggianti e quasi tendenti alla tranche delle musiche e dei canti vibratori dei Mancuso, si rompe man mano in un grido attraverso il quale la consapevolezza sembra erompere per mettere, forse, in discussione un sistema apparentemente solido ma, alla fin fine, fondato solo sulla mancanza, sulla nostra mancanza, di coscente consapevolezza. La parola di Marco Martinelli, la sua sintassi drammaturgica così raffinata ed insieme consapevolmente 'aperta' verso di noi, la stessa scrittura scenica in cui il segno di Marco si mescola con la sensibilità di Ermanna Montanari, intimamente presente pur se non in scena, ci conducono dunque verso lo Stige che sta, non tanto tra le onde di un mediterraneo sempre più ostile, ma al fondo della nostra coscienza dove, inconsapevoli, archiviamo la disperazione di uomini e donne senza nome, numerati come nei campi di concentramento. Condotti di fronte alla nostra coscienza, resi consapevoli, non abbiamo più alibi, non possiamo 'dimenticare' di nuovo, dobbiamo scegliere. In questo modo la peripezia scenica va oltre la contingenza storica e sociale per assumere i caratteri ben più generali di esperienza estetica, quasi metafisica per il suo voler affondare nelle radici stesse della nostra più intima e condivisa coscienza di sé. Io credo, per concludere, che con questa drammaturgia il Teatro delle Albe faccia un ulteriore passo in avanti nella sua storia intensa e venga a collocarsi, in un panorama come quello italiano assai controverso, tra le esperienze più innovative, in termini non solo di linguaggio ma anche di 'visione' drammaturgica, tra le più significative a livello europeo. Della bravura di Alessandro Renda, della sua capacità di piegare la voce alle esigenze di interpretazione del testo, quasi una sua esegesi vocale nel solco delle esperienze di Ermanna, abbiamo già detto, come anche dell'intensità della presenza dei fratelli Mancuso e delle loro tonalità ispirate, come da loro stessi esplicitato, alle modalità ritmiche e anche metriche della tragedia greca che attraversano l'intera esperienza dei 'suoni' del mediterraneo, anche. Il successo all'esordio, accompagnato da applausi intensi e commossi e da numerosi richiami in scena, è stato meritato per questa drammaturgia per la quale mi auguro, per la crescita del teatro italiano e non solo, ripetute e, direi, 'dovute' nuove messe in scena.