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Emma Dante ispirandosi all’Intervista impossibile a Polifemo, pubblicata nel 2008 da Einaudi nella raccolta “Corpo a Corpo”, dà vita ad uno spettacolo in cui viene ripercorso lo sbarco di Odisseo nella terra dei Ciclopi. In ogni autore nasce il desiderio di misurarsi con il mito ed è interessante notare come, alcuni miti, pur nella loro evidente irrazionalità, fuori da ogni logica scientifica, si siano radicati nell’essere umano come espressione di eventi arcaici, come se l’uomo avesse bisogno di renderli razionalmente comprensibili e più vicini a noi. Oltre a rappresentare una dimensione parallela, il mito si configura come espressione di una delle qualità più umane, la fantasia, il potere di sognare e creare. Il mito ha una funzione fortemente teatrale. Il mito è dentro di noi. Emma Dante parte da questa consapevolezza per approdare ad una versione originale, leggera e quasi carnale del mito di Polifemo. Polifemo come uno di noi, uomo di strada, ignorante, sgarbato, ma anche molto solo. La visione della regista, che interpreta se stessa, è quasi tridimensionale, in alto un impalcatura di metallo dominata dalla voce e dalle composizioni originali di Serena Ganci (mescola con arte i suoni della tradizione, con elementi tratti dalla musica rock, punk e metallica), in basso tre danzatrici, molto espressive, corpi in movimento, che disegnano architetture mobili, ora verticali, ora orizzontali, corpi straziati, addolorati, plastici, burattini nelle mani del mangiafuoco Ganci; al centro le figure non più mitiche di Polifemo e Odisseo in giacca e camicia bianca, eleganti, istrionici, interpretati da Salvatore D’Onofrio, e Carmine Maringola. I due personaggi, ridotti a semplici protagonisti di talk show televisivi, intervistati dalla regista, mostrano le loro debolezze le loro meschinità ma rivelano anche le nostre comuni paure: la paura del diverso, del mostro...La parola scenica utilizzata per raccontare il mito non è più quella arcaica, epica, ma un napoletano contaminato, come dichiara lo stesso Odisseo: parlo la lingua di un popolo che sa arrangiarsi che vive di furberie che tira a campare e io stesso sono così. Ma a me piace pensare che la scelta del napoletano sia legata anche alla musicalità di una lingua che nasce dalla diversità, dalla contaminazione di popoli e dominatori: greci, romani, angioini, francese, spagnoli...Emma Dante ama i dialetti. E lo dichiara pubblicamente in questa intervista spettacolo, che diventa anche un momento per raccontare la sua poetica, la sua visione del teatro. La regista siciliana coglie l’occasione per dichiarare la sua passione per i dialetti, le sue letture preferite: le opere di autori che scrivono in dialetto come Eduardo e Viviani. Coglie l’occasione per polemizzare con qualche critico che si rifiutò di recensire le sue opere proprio a causa del dialetto. Coglie l’occasione per ricordare Carmelo Bene. Tuttavia, in questo contesto scenico fatto di leggerezza, e di sketch da commedia dell’arte, le citazioni di Carmelo Bene («Un teatro che non fa morti, che non sollecita crimini, sabotaggi, delitti, non può essere teatro, è spettacolo, piccola fiera delle vanità») o le dichiarazioni sulla visione scenica che ribadiscono il suo interesse per il vissuto dell’attore piuttosto che per le sue capacità tecniche, risultano note dissonanti in spettacolo che regala momenti di allegria, grazie soprattutto alla musicalità della lingua scenica scelta. Sull’uso del “dialetto napoletano” potrebbe essere importante ricordare che il napoletano non è un dialetto ma una lingua...L’Unesco di recente attribuisce proprio al napoletano il riconoscimento di “patrimonio dell’umanità”, definendolo una lingua, (con regole grammaticali e sintattiche ben precise) si è deciso di salvaguardarlo e proteggerlo in quanto “patrimonio da tutelare non solo per l’Italia ma per il mondo intero”. Uno spettacolo dove tutto è esplicitato, anche le intenzioni della regista. Tuttavia esplicitazioni così chiaramente rese in scena, fanno perdere di vista uno degli obiettivi principali del fare teatro: la possibilità che lo spettatore possa in qualche modo concepire una sua comprensione, una sua drammaturgia, fanno perdere di vista quella tensione dialettica come ama definirla Marco De Marinis: “...fra determinazione e libertà, fra vincoli (testuale e contestuali) dell’opera (del testo) e possibilità di scelta del fruitore, che viceversa rappresenta il proprium dell’esperienza estetica, di ogni esperienza estetica: ciò che la rende viva e vitale (naturalmente nei casi in cui accade di esserlo).” Polifemo, non più un mito, ma uomo qualunque, alleggerito dalla perdita della memoria, col tempo, nella solitudine, è diventato di pietra. “Song io ‘a caverna. Song tutt’uno con la roccia, monotono e gigantesco, un’enorme montagna senza cuore. Sono di pietra, signò, e voi mi abitate!...” Siamo noi ad abitarlo siamo noi a dover cercare la sua memoria dentro di noi. Siamo noi a non dover dimenticare il mostro che giace addormentato. L’altro protagonista, Odisseo, rimane una figura di contorno (altro che “virtute e canoscenza” ...) ridotto quasi a un qualsiasi donnaiolo che tuttavia ad ogni nuovo incontro sceglie sempre di ritornare da Penelope. Gioca abilmente con gli stereotipi e i cliché, Emma Dante, gioca per ricordarci che la nostra società dei consumi, distorce, degenera e ricicla anche i miti. Molti applausi... eppure mi alzo con un desiderio di mito e con il pensiero che sarebbe necessario raccontare anche un’altra Odissea, quella dei tanti “Nessuno” che affollano il nostro mare. Quell’Odissea reale, poco mitica e molto drammatica che tanti uomini, donne e bambini hanno trovato nel Mare nostrum, non molto lontano da quelle enormi pietre che Polifemo scagliò contro Odisseo.

Milano, Teatro Franco Parenti, 25 Settembre 2014