Pin It

I giovani critici, soci dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro, sono invitati a partecipare agli incontri che si svolgeranno a settembre, in occasione degli eventi organizzati a Gallipoli in onore di Eugenio Barba. Comincia così l’avventura pugliese, svoltasi nel corso di un’intera settimana,

dal 22 al 28 settembre. Anche Dramma.it era presente, sia a Gallipoli che a Taranto. L’invito, giunto tra giugno e luglio, quando ancora si presenziava al NTFI e al Festival di Volterra, era apparso subito allettante. Trascorsa l’estate, ricominciamo ad osservare e ad intrufolarci nei teatri; anche quest’anno, dopo la splendida esperienza, nel 2013, a Taranto, ritorniamo in Puglia. Un vero e proprio tour de force, che dopo i primi giorni gallipolini, in compagnia di Eugenio Barba e di alcuni esponenti dell’ Odin Teatret, ci ha catapultati a Taranto, per seguire gli ultimi spettacoli, all’interno del ricco cartellone di StartUp Festival. La concomitanza degli eventi, durante la stessa settimana, ci costringe ad una scelta forzata e così, decidiamo di dedicare i primi giorni di osservazione al percorso gallipolino, e gli ultimi a Taranto.
Incrociamo la prima sera, per caso, Eugenio Barba ed alcuni operatori: primo giorno a Gallipoli, prima osservazione dei luoghi, primo contatto con i giovani colleghi provenienti da tutta Italia. Una testa canuta esce dall’albergo ed entra in macchina. Saluti, sorrisi, pacche sulle spalle: domani ci rincontreremo. “Fate tante domande, mi raccomando!”: così esordisce, rinnovando l’appuntamento e l’arrivederci al giorno dopo. Il ragazzo pugliese dal sorriso splendente non sembra invecchiato, ma appare pronto a “schizzare” in ogni angolo di una stanza. Riflessivo, dagli occhi brillanti e dalla gestualità accentuata, sembra contenere una passione viscerale, mai sopita, mai addormentata, pressante ed esplosiva. Pranzare con Eugenio Barba è semplice, credetemi. L’involucro, la teca, il simulacro, che il tempo, gli storici del teatro, gli studiosi e gli spettatori hanno costruito attorno alla sua persona, è trasparente, gelatinoso, poiché lui riesce ad uscirne, riesce a respirare la stessa aria del suo interlocutore, riesce a parlare guardando negli occhi. Ci incrociamo in ascensore e mi chiede qualche informazione sulla mia vita. Poi la domanda fatidica: hai mai visto l’Odin? No – rispondo – ma sono qui per imparare - e sorrido. Sorride anche lui, dritto negli occhi, e mi accompagna fino alla sala ristorante dell’albergo. Il pranzo con Eugenio Barba è un pezzo di storia di cui siamo stati protagonisti, 6 giovani critici, giornalisti e studiosi, un tavolo rotondo, tante parole ( nella foto di Tommaso Chimenti, da sinistra: Emanuela Ferrauto, Alessandro Toppi, Emilio Nigro, Tommaso Chimenti, Eugenio Barba, Vincenza Di Vita, Elisabetta Reale).  Nonostante la presenza di telecamera e microfono ( il tutto confluirà in un documentario), la freschezza della conversazione ha vinto su tutto. Eugenio Barba racconta la sua vita, tra un cameriere, un piatto, un bicchiere di vino, e alle domande specifiche sul teatro, devia il suo discorso sugli insegnamenti di vita: bisogna dare una rottura ad un percorso, se si desidera fortemente altro. Osare è il punto focale di un discorso che va al di là del teatro. Si parla di un coraggio che interessa le nuove generazioni e che scompare dietro la cortina della crisi e degli studi accademici. Osare. Ma chi oggi lo farebbe? Chi oggi partirebbe per la Norvegia, trascinerebbe giovani attori in Danimarca e lavorerebbe sui territori e sulla ricerca artistica sperimentale? La conferenza stampa svoltasi il 23 settembre a Lecce, presso gli splendidi Cantieri Teatrali Koreja, vede l’intervento degli assessori Silvia Godelli e Luigi Coclite, di Carmelo Grassi, presidente del TPP, Teatro Pubblico Pugliese che ha dato vita a tutto questo, e di Franco Ungaro, co-direttore artistico dei Cantieri Koreja. E proprio l’intervento di Ungaro appare quello più accorato, diretto, terribile: pochi giri di parole, i fondi non ci saranno più. Il futuro delle produzioni Koreja, il percorso intrapreso dalle Residenze, le meraviglie teatrali ed organizzative della regione Puglia, si stanno dissolvendo? Eugenio Barba risponde raccontando una storia, in bilico tra realtà e mitologia: nel 1966, il postino di Holstebro, con poca cultura e tanta volontà, diventa il sindaco della città e capisce che invitare una compagnia, l’Odin Teatret, in Danimarca, potrebbe essere la chiave vincente.  Se da un lato la cittadina danese non percepisce subito le potenzialità di un incontro e di un rapporto proficuo con questi artisti, dall’altro la decisione del gruppo Odin di lasciare la Norvegia, e la scelta di Barba, emigrato italiano a tutto tondo, di condurli al luogo in cui vivono ed operano da 50 anni, sono elementi che rappresentano la rottura verso il cambiamento dalla natura oscura. “Odin ha abituato la cittadina alla stranezza, ecco perché non ci sono differenze etniche”, aggiunge Barba durante la conferenza stampa. Il linguaggio intrapreso dall’Odin Teatret, in mezzo secolo di vita,  è complesso, poiché non è unicamente fondatore e sviluppatore di tecniche sceniche, di studi e  di sperimentazione sulla voce e sull’armonia, sull’interpretazione del testo, ma è un lavoro che affonda profondamente nelle viscere dei territori in cui approda. Come Eugenio Barba appare un “contenitore” di energia, così sembra che l’Odin spinga, sproni, scuota il territorio ed i suoi abitanti, peraltro spesso non avvezzi al teatro, fino ad un’esplosione che non può essere unicamente considerata teatrale. Il Baratto, pratica legata al gruppo dell’Odin, è una metodologia che rievoca azioni ancestrali e stimola gli studi antropologici e che, forse, oggi, nella maggior parte dei territori e dei casi, perderebbe la sua realtà magica e il significato che il gruppo teatrale ha riversato su questa azione “spettacolare”. Nel corso dei giorni gallipolini, l’osservazione dell’operato dell’Odin non si è limitata solo all’analisi dello spettacolo LA VITA CRONICA; impossibile la comprensione profonda, infatti, senza un’adeguata preparazione visiva e teorica precedente. L’esperienza da “uditori”, ospiti del training mattutino, a cui hanno partecipato attori e performer provenienti da tutta Europa,  condotto da vecchie e giovani leve dell’Odin Teatret ( Sofia Monsalve, Elena Floris, Donald Kitt), si affianca alla possibilità di osservare i docu-film proiettati all’interno del Teatro Garibaldi di Gallipoli, riguardanti le esperienze di Carpignano, Perù, Cuba ( dal ’70 ad oggi). A questo si aggiunge anche la visione dello spettacolo-lezione L’ ECO DEL SILENZIO con Julia Varley, e l’analisi, infine, dello spettacolo IL CASTELLO DI HOLSTEBRO, ancora con Julia Varney,  concludendo con LA VITA CRONICA, climax indispensabile nel percorso affrontato durante il nostro soggiorno a Gallipoli. L’esperienza vissuta ed osservata non è unicamente artistica, così come non solo critica. Anche per noi, osservatori esterni, la conoscenza visiva e sperimentale dell’Odin Teatret, al di là degli studi saggistici o teorici, è fisica, ed ingloba, intacca, interferisce, influenza la vita stessa, ponendo sul medesimo piano gli artisti, i critici, il pubblico. Ecco perché, forse, dovremmo considerare questi spettacoli manifestazioni dell’umanità intera, storicamente descritta attraverso immagini e metafore. L’osservazione dello spettacolo/dimostrazione L’ECO DEL SILENZIO, permette una comprensione più attenta su ciò che già si intuisce assistendo al training. Diversi sono i piani ed i livelli, profondamente umani nel senso di fisicità e di intelletto, a cui vengono sottoposti gli artisti dell’Odin, ma soprattutto il pubblico. Attraverso un lavoro duro e complesso, gli attori si formano per dare vita ad una comunicazione articolata e soprattutto in continua evoluzione. Impossibile, dunque, per gli spettatori, non essere “sorpresi”. Uno degli scopi fondamentali dell’Odin è proprio la sorpresa: sembrerebbe una semplice formalità scenica ma in realtà contiene una difficoltà attuativa profonda. La sorpresa ha diversi livelli, così come diversi sono i livelli di comprensione ed apprendimento del pubblico. L’Odin riporta lo spettatore ad una condizione primitiva, e quindi necessariamente differente per ognuno di noi, in cui ogni suono od immagine, o meglio l’affastellarsi di suoni ed immagini, frantumano l’involucro esteriore costruito dalle convenzioni quotidiane. Ma, facciamo attenzione, creare delle crepe non significa condurre ad un’esplosione violenta, ma bensì incanalare con fermezza tutto ciò che potrebbe sfociare disordinatamente. Insomma, imbrigliare la creatività in potenza significa anche avere consapevolezza di ogni parte del proprio corpo e delle sue potenzialità. Non parliamo di teatro testuale, nonostante l’attenzione al testo sia enorme, ma di costruzione creativa a 360 gradi. Ecco, allora, che si analizzano le parole dei testi, si ricerca il ritmo e la fluidità, si trasformano i suoni e le parole  in gesti ed immagini, si affiancano le musiche, si riconoscono i suoni armonici, si modulano le tonalità. Un lavoro lungo e non immediato, così come ci spiega Julia Varley. L’attrice è protagonista de IL CASTELLO DI HOSTELBRO, che appare subito come una “summa” degli elementi descritti dalla Varley, in riferimento allo studio sulla voce e alla ricerca sonora sul testo e sul corpo. La solitudine si interseca profonda tra uomo e donna, poiché in mezzo si pone un fantoccio dal volto scheletrico e mortuario. Eros e Thanatos emergono attraverso il bianco e il rosso, colori preponderanti, oscurati dal nero velo che benda. La Fortuna cieca così come l’amore, conduce alla solitudine e quindi alla morte. Ancora una volta l’umanità viene descritta attraverso simboli e metafore, sulla scia degli insegnamenti grotowskiani, preponderanti in tutta la produzione di Barba. L’umanità è descritta per essere osservata dalla stessa umanità, da quel pubblico che si evolve o  involve e che apprende, capta, assorbe in maniera sempre differente. Parlare attraverso simboli significa rendere universale e atemporale la comunicazione, rendendola eterna. L’uomo e la donna, le due facce di una stessa medaglia, come Estragone e Vladimiro, le due parti di uno stesso cervello,  che non è più il teschio amletiano ma che Amleto ricorda, così come Ofelia, Desdemona e tutta l’universalità del teatro shakespeariano che ancora vive ed è eterno. L’altare dell’amore ha come statua uno scheletro, adorato attraverso suoni ancestrali di bestie-uomini, attraverso la mescolanza di musiche provenienti da ogni luogo del mondo:  ai suoi piedi la prefica che esprime il suo dolore sonoro, come le urla delle donne berbere o i suoni gutturali delle donne sarde. Il castello è la nostra mente, corrosa dalla solitudine di amori e da legami materiali e metafisici. La corrosione dell’animo che giunge fino all’osso e che unifica tutti nello scheletro, comune all’uomo e alla donna. Due sessi che si fondono, attraverso l’immagine della vestizione e della svestizione: un teschio può indossare una gonna, un pantalone, ma è pur sempre il grado zero dell’umanità, comune a tutti.
L’umanità è protagonista, e spettatrice insieme, de LA VITA CRONICA. Il significato originario della radice greca kronos ( tempo), si lega al concetto scientifico di cronicità: l’iterativa condizione che si sviluppa nel tempo. La storia si ripete: l’umanità anche.
Oggi “cronico” è anche aggettivo solitamente attribuito a patologie ricorrenti: cronicità patologica in cui i ruoli si ribaltano, i padri uccidono i figli, e questi rimangono ciechi.
L’ambientazione dello spettacolo, collocata in un futuro, non è casuale. La scelta della zattera lignea come palcoscenico nel palcoscenico è fondamentale. Del resto, la “canoa di carta”, generata dalla poetica “barbiana”, ne è un chiaro simbolo. Dal passato, attraverso il presente, per giungere in un futuro prossimo ( o forse no!), la storia e l’umanità si “attorcigliano” in un circolo vizioso, costituito da esteriorità comune ed interiorità personale, differenti ma profondamente legate. Lo spettacolo nasce da una profonda riflessione, da un lungo studio e da interferenze che trasformano l’idea di base, che la bloccano e la riprendono, nel corso del tempo e attraverso i luoghi vissuti dall’Odin Teatret. I protagonisti sono una Madonna Nera, una vedova di un combattente basco, una rifugiata cecena, una casalinga rumena, un avvocato danese, un musicista rock delle isole Faroe, un ragazzo colombiano che cerca suo padre scomparso in Europa, una violinista di strada italiana, due mercenari: l’umanità metaforica e simbolica. I suoni, le voci, le musiche nascono e vivono contemporaneamente ma nel corso dello spettacolo, la comprensione perde via via la tendenza alla “caratterizzazione identificativa” di questi elementi. La zattera è simbolo eterno, è limite e confine, tra Stati e case, così come la porta e la serratura. L’incombere dell’esterno, della guerra, della violenza, all’interno della zattera, accomuna, unisce e disperde i protagonisti. Ognuno di loro è alla ricerca di un simbolo, di un valore, ma nel protrarsi affannoso della vita e della storia, si perde sempre qualcosa di prezioso: un marito, un figlio, un padre, la dignità, la vista. La zattera, che a tratti ricorda quella del famoso dipinto di Gericault, si trasforma, si illumina, diventa altare, patibolo, luogo di crocifissione e di sacrificio pagano. Ai piedi la tomba trasparente, il morto da lavare, Ofelia annegata e asfissiata dall’umanità amletica. E quando il mondo turbolento e la storia assassina assalgono, sullo stesso altare-patibolo, queste marionette dell’umanità, essi si accalcano,  si fondono insieme, in una struttura piramidale aggrovigliata, al cui vertice emerge la Madonna Nera. Nulla di cristiano, poiché nessuna identificazione è plausibile, ma il gruppo così collocato ricorda la scultura classica del Laocoonte: padri e figli uccisi dall’animale mitologico e quindi storico. Lo spettacolo viene costruito, sin dalle origini, attraverso la collocazione centrale della zattera, ponendo ai lati due spalti elevati, affinché il pubblico veda, contemporaneamente, il centro della scena e coloro che stanno seduti di fronte. Un grande imbuto che coinvolge, accoglie, accomuna e ingurgita tutti, sia nella realtà che nell’irrealtà. Volano monete e carte da gioco, il ghiaccio stilla gocce di acqua gelata, appeso ad un gancio da macellaio: sangue e vita, perché sotto, una piantina si nutre di quest’acqua. Lo spettacolo è un complesso grandioso, in cui gli attori mescolano corpi, voci, musica e colpi di scena, visivi e simbolici.
Un’enorme danza mistica che non ha tempo ma che attende il suo Penteo da uccidere e da sbranare durante lo sparagmos. Il pubblico appare perplesso, poi sorpreso, poi ipnotizzato, commosso, coinvolto. Performance difficile, intensa, ineguagliabile allo stile teatrale più tradizionale. Non è facile tornare ad osservare il teatro comune. Quello dell’Odin Teatret trasforma i punti di vista, in profondità. In scena attori storici e nuove leve: Kai bredholt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Elena Floris, Donald Kitt, tage larsen, Sofia Monsalve, Iben Nagel Rasmussen, Fausto Pro, Julia Varley. L’esperienza con Eugenio Barba e l’Odin Teatret finisce qui. Ci trasferiamo a Taranto, per la seconda puntata della settimana pugliese. Ma sarà difficile tornare alla realtà.

 

foto di Rina Skeel, Jan Rüsz, Tommaso Chimenti