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La stagione teatrale è finalmente iniziata.  La nostra stagione, però,  è ricominciata già a settembre. Dopo l’importante esperienza a Gallipoli, in compagnia di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret  ( A PRANZO CON EUGENIO BARBA), non potevamo non spostarci in una delle città pugliesi che ci sta più a cuore: Taranto.

L’esperienza del settembre 2013 presso il Teatro Tatà (Startup Taranto: residenze e resistenze), in compagnia di CREST, ha fatto sì che l’anno scorso lasciassimo una promessa a Gaetano Colella: ritornare nel 2014. Promessa mantenuta, nonostante la brevità del soggiorno, protrattosi dal 25 al 27 settembre. Bando ai ricordi malinconici, parliamo di ciò che, invece, ci ha proposto quest’anno STARTUP Festival a Taranto.  Nonostante le voci diffuse e riconosciute sulle problematiche delle Residenze Teatrali e sul futuro che queste avranno, o non avranno, nel 2015, l’accoglienza tarantina non si smentisce mai. Grande presenza di pubblico, numerosi critici provenienti da tutta Italia, importanti incontri sulle nuove drammaturgie e sulle trasformazioni della critica teatrale, visite guidate nei principali siti artistici ed archeologici della città vecchia. Quest’anno il pubblico diventa oggetto fondamentale di profonde riflessioni, argomento di ricerca e di confronto: dai critici agli studiosi, forse lo spettatore ritorna ad essere il punto focale, il destinatario-osservatore che avevamo perso di vista. Massimo Marino conduce ancora una volta, nel corso del Festival StartUp,  il laboratorio critico, durante il quale anche lo spettatore, magari poco avvezzo al teatro, oppure appassionato ma non immerso nello specifico contesto culturale e lavorativo, si cimenta nella recensione, attraverso i primi strumenti rudimentali di osservazione, la prima tecnica scrittoria. Il tutto scaturisce necessariamente dalle sensazioni e dalle emozioni di chi siede in platea, perchè StartUp è anche, e soprattutto, caratterizzato da numerosi spettacoli.
Dopo un anno ritroviamo in scena a Taranto, Salvatore Marci. Lo spettacolo SETTE OPERE DI MISERICORDIA E MEZZO, viene definito un “accadimento teatrale a causa di Salvatore Marci”. Quest’anno lo spettacolo si evolve.  Dalle “impressioni” e dalle sensazioni che il lavoro, ancora studio, ci aveva trasmesso un anno fa, oggi emergono  personaggi, tasselli di storie, dialoghi. Dunque, da un pannello ampio, quello dell’ ambientazione scenica in cui si  alternano interni bui ed immense strade delle metropoli notturne, da una macchia oscura e gelatinosa cominciano ad affiorare  volti, storie già accennate, nomi e racconti. Quest’ultimi, già presenti nello studio, adesso appaiono delineati, ma mai specifici. Uno studio si evolve continuamente e questo lavoro trasmette esattamente la sensazione di un “no-end” infinito. Del resto la misericordia, protagonista anelata di questo spettacolo, è simbolo umano e storico atemporale, e in un contesto sociale contemporaneo diventa scopo di vita, sospiro divino tra i corporei dolori di uomini e donne, sfracellati sull’asfalto scuro, come angeli bianchi dalle penne avvizzite. Ancora una volta si utilizza l’escamotage del “BUIO-LUCE”: una voce invita gli spettatori a chiudere ed aprire gli occhi. I flashback visivi  aiutano il pubblico a reagire emotivamente, mentre l’attore costruisce la scena attraverso mosaici di vita frantumati, che affiorano dall’oscurità e che creano i chiaroscuri caratterizzanti questo specifico lavoro. Meta-teatralità, rapporto intenso con il pubblico, poesia amara, intensa interpretazione di Marci (che non delude mai). Spettacolo dalle tinte dark noir, ricorda i fumetti americani. Lavoro in cui agiscono anche Maristella Tanzi e Daniele Lasorsa. Non esiste collocazione geografica, né identificazione temporale. Siamo tutti alla ricerca di misericordia, ancora oggi. Forse di più.
Dall’intensità di Marci arriviamo ad un altro tipo di rapporto con il pubblico. In effetti quest’anno StartUp sembra aver voluto seguire un filo conduttore, anzi due. Il primo, forse non previsto ma preminente, consiste nello stimolare assiduamente  il pubblico. Gli attori, nella maggior parte degli spettacoli in programma, invadono la platea, si rivolgono ad un determinato spettatore, pongono domande, interagiscono con il pubblico. Insomma la richiesta d’aiuto del nuovo teatro sembra urlare: svegliatevi! Ma un altro tema appare fondamentale, quasi una radice, una colonna su cui poggia il  Festival di quest’anno: i padri che uccidono i figli. Uccisione metaforica che sta ad indicare una regressione culturale, una “degenerazione” generazionale in cui il magro tentativo di emergere, portato stancamente avanti dalle nuove generazioni, sembra essere deriso dai padri, da coloro che hanno lavorato, lavorano ancora, percepiscono o percepiranno le pensioni. Schiacciare i figli attraverso una presenza eterna, involutiva, non rigenerativa.
I giovani artisti del TEATRO SOTTERRANEO colgono a pieno questa tematica. Il loro spettacolo BE NORMAL appare una provocazione sin dal titolo. Il “be normal” della routine quotidiana, oggi, per i nostri giovani, è quello della ricerca di un lavoro, e non dell’andare a lavoro. Constatazione ovvia, quando invece è un paradosso. Per essere normali in questa società cosa bisogna fare?: due attori trentenni, conviventi, alla ricerca di lavoro. La compagnia utilizza la metafora dell’astronauta, dell’eclissi di luna, del primo uomo sul nostro satellite. In effetti l’immagine dello sbarco sulla luna, ormai da decenni, simboleggia il cambiamento, la trasformazione, l’evoluzione dell’umanità. In questo spettacolo rappresenta, invece,  l’anormalità, cioè quei sogni che i bambini degli anni ’70 e ‘80, come quello del far l’astronauta da grande, avevano e adesso non ricordano più. L’oscuramento della luce, la mancanza di speranza, la crisi, la mancanza di lavoro, sono temi ormai diffusi, riutilizzati spesso in scena, e per questo forse bisognerebbe considerare il lavoro testuale di Daniele Villa non del tutto innovativo, sebbene il lavoro scenico, invece, appare accattivante e coinvolgente. Sul palcoscenico osserviamo Sara Bonaventura e Claudio Cirri, i giovani che rappresentano simbolicamente l’odierna società, in questo caso poco atemporale e molto geografica, poiché è chiaro il riferimento all’Italia dei nostri tempi. Il pubblico viene coinvolto attivamente, tra sketch televisivi, microfoni,  giochi sul palcoscenico, interviste, colloqui di lavoro, scanditi da orari e da violenze inaudite. Del resto, il grottesco fa ridere proprio perché gli spettatori si ritrovano nell’immagine caricaturizzata. Geniale la scelta di far “dialogare” due monitor sul palcoscenico ( casse di ritorno) che diventano, grazie agli spostamenti manuali dell’attore, due manichini immobili, un ragazzo ed una ragazza che si incontrano, flirtano, si amano, si lasciano. Scatole buie  da cui escono unicamente due voci. Ecco come si sente la società dei più giovani, oggi. Il sogno di diventare astronauta ormai fa ridere, il lavoro al call center fa uccidere. Be normal? In che senso?
Ancora pubblico, attivamente coinvolto, attraverso lo spettacolo PSYCHO KILLER. Avevamo conosciuto Ippolito Chiarello, nel 2013, su un piccolo piedistallo, all’ingresso del Teatro Tatà. L’attore, che vanta una lunga esperienza, è conosciuto oggi anche per il fenomeno del Barbonaggio Teatrale, che gli ha permesso di viaggiare e di recitare “a pagamento” e “su richiesta” i suoi pezzi teatrali Spazi, piazze, strade e locali, oltre che teatri, diventano luogo in cui il pubblico paga somme irrisorie affinché Ippolito possa recitare. Barbonaggio, appunto, nel senso di “elemosina” artistica che vede Chiarello esibirsi in un contesto sempre diverso, in situazioni anche particolari, tra provocazione e divertimento. Stavolta lo vediamo in scena con uno spettacolo ispirato al libro “Quanto mi dai se ti uccido? “ di Walter Spennato. L’assassinio diventa argomento televisivo. Fioccano le numerose trasmissioni televisive in cui si discute di omicidi, violenze, moventi, vittime e assassini, criminologi famosi. Sulla scia delle tendenze americane, anche l’Italia diventa morbosamente curiosa. In realtà lo spettacolo non è solamente una parodia della società italiana contemporanea, ma è piuttosto il risultato umano di una società come la nostra. Lo spettacolo diventa avanspettacolo, macchietta, Varietà, grazie anche alla collaborazione dei due giovani musicisti, Raffaele Casarano al sax e Stefano Rielli al contrabbasso. Una prima nazionale prodotta da Nasca Teatri di Pietra che coinvolge pubblico, fonici, e che gioca sull’improvvisazione, sul movimento, sul disordine, sul colpo di scena. Insomma, una serata futurista contemporanea che non indigna ma diverte. In realtà lo spettacolo, che è doverosamente caratterizzato dal riso liberatorio, poiché alcune situazioni vengono volutamente portate ad estreme conseguenze, per risultare efficace fino in fondo deve necessariamente lasciare l’amaro in bocca. Non possiamo banalizzare facendo apparire il protagonista come il solito folle, sfigato ma simpatico, che trasmette un codice di osservazione  e di comprensione completamente ribaltato, a cui poi il pubblico si abitua. Il riso riporta tutto su un piano paradossale quando, invece, il significato di fondo è amaramente realistico. La solitudine dell’uomo e, in contrasto, la confusione volutamente portata in scena devono rendere l’idea fondamentale. Ma questa confusione, costituita da urla, spari, rumori che si sovrappongono alla musica, diventa poi esageratamente ridondante in alcuni momenti, e forse inutile visto che il pubblico ha subito compreso il meccanismo, tanto che, durante le ultime scene, lo sparo improvviso e finale era atteso da tutta la platea. Ma uno solo. Il troppo stroppia.
Impianto tradizionale ma coinvolgente, è quello dello spettacolo CAPATOSTA di Gaetano Colella. Anche qui si utilizza l’ironia legata alla descrizione del drammatico presente, ma soprattutto qui ritorna fortemente il tema di base: i padri che uccidono i figli. Ma con un’aggiunta: i padri uccidono i figli e li lasciano orfani. E qui parliamo di uccisioni reali, poiché questo spettacolo ha una precisa connotazione geografica e temporale, cioè Taranto, l’ILVA, le morti degli operai. Il teatro Tatà sorge nel quartiere Tamburi di Taranto e alle spalle  scorgiamo imponente l’ILVA. Gaetano Colella, direttore artistico del teatro Tatà, è soprattutto attore ed autore. Questo suo spettacolo, che in italiano significherebbe “testa dura”, è profondamente commovente. Il pubblico ride. Ma il vortice conclusivo, simbolicamente rappresentato da una poltrona girevole, è coinvolgente. Stabilimento ILVA:  il capo reparto è interpretato da Gaetano Colella,  il ragazzo di 25 anni che inizia a lavorare nello stabilimento è interpretato da Andrea Simonetti. Il ragazzo, figlio di un ex operaio, morto di tumore per aver lavorato una vita intera all’Ilva, ottiene il posto di lavoro.  Due età, due esperienze, due Italie. Il veterano vuole fuggire via, poiché nulla cambierà e nessuno è più interessato a cambiare, il giovane vuole rimanere, perché se si cambiassero delle cose, l’ILVA non sarebbe più un cimitero di lamiera. Il veterano crea un’oasi immaginaria dentro il reparto, costituita da una poltrona e un tappeto di erba sintetica, simboli plastificati di un’ipocrisia di vita, proprio perché la sua volontà di andar via non sarà mai veritiera. L’incontro-scontro tra i due avviene continuamente, come un balletto sul palcoscenico durante il quale, nel momento in cui i due cominciano ad incontrarsi, giunge lo scontro arido tra due generazioni, tra due punti di vita, e quindi il conseguente distacco Ironia amara, rumori in sottofondo, caldo, fatica, corpi disfatti. Due classi operaie: la prima, quella che desiderava lavorare e che ha guadagnato, ma anche perso, tra morti e malattie. La seconda, quella dei giovani che si laureano ma che, grazie alla morte di un padre, lavorano per morire ancora. Una delle scene più emozionanti dell’intero spettacolo, che appare leggero e fruibile da parte del pubblico, di quel pubblico tarantino che, pur ridendo, il magone dentro lo sente davvero, è l’immagine del ragazzino nudo, issato su un piedistallo e illuminato da un chiaroscuro giallognolo- rossastro: San Sebastiano alla colonna, ma una colonna di acciaio. San Sebastiano, giovane e martire cristiano. Quale fede oggi, invece, si difende per morire da martiri di un’acciaieria?
Il pubblico è anche protagonista dell’opera “L’artista del digiuno” di Kafka, da cui è liberamente ispirato lo spettacolo L’OSSO DURO, interpretato da Roberto Corradino.
La storia del digiunatore ingabbiato è quella di ogni artista. Oggi bisogna attirare l’attenzione per vivere. Per sopravvivere. Il cerchio si chiude: i padri uccidono i figli, futuri artisti mancati. L’Arte muore. Anche il digiunare in maniera “spettacolare” attira l’attenzione del pubblico. Il senso di questo racconto e dei personaggi di quel Kafka delle trasformazioni e delle metamorfosi, aderisce perfettamente, come una pellicola trasparente, alla situazione contemporanea. Potremmo identificare Franco ( così come viene chiamato il protagonista, in riferimento a Kafka naturalmente), non solo con l’artista, con la fame, con la mancanza di successo, ma soprattutto con l’uomo, che esso sia uomo comune o no. Assenza di attenzione, solitudine, ingabbiamento, pubblico che osserva e deride. Oggi utilizzeremmo la televisione per identificare la stessa gabbia circense, metafora dell’umanità, che aveva in mente Kafka. Siamo tutti belve in pasto all’opinione pubblica, spesso inesistente, vacua, inconsistente. L’attore, e autore dello spettacolo, intraprende una performance “in tensione”: il suo corpo sembra striato da nervature pronte ad esplodere. Una bestia in gabbia in potenza ma che non esploderà mai. La degenerazione della volontà si mescola qui alla metamorfosi intesa come doppia personalità freudiana. L’animale e l’uomo non rappresentano tanto l’interno e l’esterno della personalità, bensì il passato e il futuro. Cosa rimane nel mezzo? La gabbia e la morte. Punto di non ritorno che illude, glorifica ma non premia. L’attore dimostra un’ottima padronanza del movimento fisico, delle tensioni, del cambio di personalità e del personaggio grazie al particolare utilizzo della voce. Viso grottesco dagli occhi spiritati che lascia il pubblico in silenzio. Lo spettacolo è complesso. Bisogna conoscere necessariamente anche il testo-fonte per evitare di soffermarsi unicamente al tema che emerge subito e che è appunto quello della società ingabbiata e della crisi dell’artista. In alcuni punti appare ridondante, come se il ritmo si affievolisse talmente da  toccare il limite minimo dell’attenzione, per poi risalire improvvisamente in un vortice turbinoso. Il pubblico rimane, così, spiazzato.
Concludiamo questa esperienza di  StartUp Festival 2014 con l’atteso spettacolo di Roberto Latini, I GIGANTI DELLA MONTAGNA e con TITANIC THE END nella visione di Salvatore Cantalupo. Partiamo da Pirandello.
Dopo un’attenta introduzione al testo, regalataci dal prof.  Gerardo Guccini, emergono temi importanti dell’ultimo lavoro pirandelliano. Il Fascismo, i giganti, il grigiore e l’arte,. Latini costruisce però una scena surreale, visionaria, onirica. Ma soprattutto lascia in scena i due personaggi “cardine” dell’intera combriccola artistica. Ilse e Cotrone recitano e vivono in un sogno ingabbiato tra quattro pareti, poiché la tela trasparente, sul proscenio, rimane anche durante gli applausi. Questo identifica l’appartenenza di questi personaggi ad un mondo estraneo a quello della platea, poiché la meta teatralità pirandelliana non si identifica necessariamente con la presenza degli attori tra il pubblico, bensì con la consapevolezza necessaria della finzione teatrale. La tela onnipresente tra spettatori e palcoscenico non racchiude un mondo serrato: dietro scorrono campi, campagne, e anche la casa di Cotrone è proiettata verso l’esterno, attraverso i suoni e la finestra. Questo spettacolo sembra, piuttosto, un’analisi delle tematiche universali inerenti al teatro,  materializzate e ricostruite visivamente attraverso l’esibizione artistica su scena. Un saggio visivo sul teatro, appunto. Immaginazione, poesia, metafora, favola, tragedia. Un dipinto scenico su diverse tavole che rappresentano la magia del mondo “altro”, fuori dalla realtà, perché così deve essere.  Di certo non possiamo parlare del testo tradizionalmente allestito e rispettato, piuttosto di una rielaborazione super partes che ha come base la poetica teatrale del Novecento, spinta oltre i confini della drammaturgia. All’interno delle scelte sceniche e sonore, ritroviamo insistentemente il riferimento ad alcuni topos della terra pirandelliana: dal campo di grano di stampo verista, alla fucina di Vulcano e al “respiro” dell’Etna in sottofondo. L’utilizzo del microfono e degli effetti vocali, delle musiche e delle sonorità spesso non perfettamente identificabili, crea una situazione di attesa che non degenera né si evolve, ma tiene lo spettatore continuamente attento a percepire che cosa stia succedendo. Impossibile non sottolineare la presenza della tragedia greca, dal Cotrone-Edipo-Zeus. Mago di Oz ad Ilse-Medea- Spaventapasseri dal guanto rosso sangue. L’Arte è la divinità, cattiva, indisponente, umana, capricciosa a cui i teatranti devono sottomettersi. Lo spettacolo è intenso, sia dal punto di vita emozionale, scenico e soprattutto visivo. Il perno fondamentale è Pirandello e le trasformazioni del teatro novecentesco, immagine di una società profondamente cambiata. Il cardine oscilla, però, tra il passato più antico, la tragedia, e il futuro più avanzato, quasi metafisico, come se al centro non ci fosse nulla. Ancora una volta, la nostra epoca.
La notte del 27 settembre si conclude con Neiwiller. Lo spettacolo TITANIC THE END aveva già goduto di un bel successo, durante le repliche napoletane a novembre 2013, presso lo storico Teatro Nuovo (TITANIC THE END). Rivedere un ottimo spettacolo, un anno dopo, in un contesto completamente diverso è comunque interessante. Stavolta non ci troviamo nel buio profondo della Sala Assoli del Nuovo di Napoli, ma nel cortile del Museo Diocesano di Taranto Vecchia. Ore 23.30, cielo stellato, sera umida, mare alle spalle. Il cortile quadrato e chiuso dalle mura che ingabbiano il cielo, si illumina di candele. Il nostromo stavolta non va in cambusa, nelle profondità della nave, ma sale sul ponte. Si muove la tela bianca in cui si intersecano le ombre, svolazza all’odore di mare ( quello vero), rende suggestivo l’intero spettacolo. Non avevamo dubbi, Salvatore Cantalupo riporta un po’ di Napoli a Taranto, permettendo una conclusione del Festival elegante ed estremamente poetica. Compagnia collaudata, ipnotica, entra negli occhi di ogni spettatore, anche di quelli che, seduti accanto a me, non sanno neanche chi sia Neiwiller, ma applaudono alzandosi in piedi, in piena notte.
La nostra avventura pugliese si è conclusa a fine settembre, in attesa di conoscere ed osservare altre produzioni, a Napoli e nel resto d’Italia. Non possiamo che ringraziare, ancora una volta, Taranto, Il Tatà, il Crest e il TPP.
( foto di Gemma Rossi, Francesca D’Ippolito, Lorenzo Palazzo, Vito Mastrolonardo e tratte dalla Rete)

STRATUP FESTIVAL
TARANTO 24-27 SETTEMBRE 2014
Teatro Tatà
Museo Diocesano Città Vecchia
Palazzo Pantaleo Città Vecchia