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Caligola è il dramma che accompagna Albert Camus dalla giovinezza fin quasi alle soglie della morte compiutasi due anni dopo l'ultima definitiva stesura del 1958, la terza dal primo concepimento e abbozzo della fine degli anni trenta. E proprio questa ultima stesura, nella bella e anti-retorica apposita traduzione di Andrea Bianchi, è stata scelta da Emanuele Conte per la messa in scena che ha esordito il 15 ottobre al Teatro della Tosse di Genova, seconda tappa della trilogia dell'assurdo che si chiuderà il prossimo anno con un rinnovato Ubu Roi.
Dramma complesso dunque sin nel cuore della sua stessa elaborazione che, anche nei continui rimaneggiamenti, è lo specchio di un lungo viaggio interiore di Camus, viaggio che, accompagnandosi allo spessore psicologico, storico ed esistenziale di un Caligola che supera e trascende la sua stessa vicenda umana, trasforma un soliloquio di fronte all'abisso dell'assurdità del vivere in una inaspettata ricerca di senso.
Un viaggio interiore che è un viaggio nella vita, dall'adolescenza sempre sul punto di essere travolta dal nichilismo, al confronto con i limiti propri, del mondo e dell'essere nel mondo.
Un viaggio in cui l'aspetto più propriamente politico, talora enfatizzato, è il contesto di una riflessione non tanto sull'esercizio del potere, quanto sulla vertigine che coglie l'uomo di fronte alla affermazione di una verità e di una volontà che non voglia avere altro riferimento che sé stesso.
Quando questa volontà si realizza in colui che è effettivamente l'uomo più potente, l'imperatore, allora è squarciata e annichilita la verità stessa, non tanto del mondo, quanto soprattutto dell'uomo che lo abita.
La scrittura scenica, enfatizzando l'aspetto grottesco di un organismo sociale pregno di menzogna, di ipocrisia e di conformismo, coglie bene il senso del testo votato a facilitare drammaturgicamente l'esondazione violenta della volontà del despota, votato quasi a dare apparente giustificazione al tracimare sanguinoso e sanguinario di Caligola.
Poeta e filosofo quest'ultimo, più che politico, all'inseguimento di una logica serrata e incontrovertibile, e quindi crudele una volta perduto l'ancoraggio affettivo di Drusilla, sorella e amante, la cui morte fuori scena scatena gli eventi e dunque ne è chiave chiarissima.
L'abisso dunque, il vuoto vertiginoso è dentro, non fuori, di noi e la peripezia del giovane Caligola, icastica nella sua declinazione politica, è come un invito a guardare innanzitutto dentro la società, dentro una contemporaneità che sembra assecondarne talora modalità e comportamenti, a partire dalla famiglia che coltiva e nasconde tragedie e abiezioni di cui purtroppo sempre più spesso la cronaca dà conto.
E poi dentro ciascuno di noi.
L'intero movimento drammaturgico si realizza così quasi interamente intorno a questo circuito o corto-circuito di un pensiero tragicamente e improvvisamente privato dello spessore del sentimento, fin quasi ad esserne, questo movimento, una proiezione  compiaciuta ed assolutoria ma mai liberatrice.
Quasi interamente ma con l'eccezione di Cherea l'intellettuale affascinato forse dal titanismo distruttivo e violento del giovane Caligola, ma fermo e testardo nel richiamare l'essenza del limite come modello ineludibile del nostro essere nel mondo, limite talora degenerato in maschera e ipocrisia, ma spesso proficuo e produttivo se declinato, come nella rivolta, in relazione con l'altro che è relazione con il mondo ed unica chance per renderlo comprensibile e dunque anche felicemente abitabile.
Fermo e convinto tanto da mettersi a capo della congiura, rendendola così possibile, e ad uccidere il tiranno, ma non per salvare una società che non ama, quanto per salvare paradossalmente il tiranno stesso dal suo potere e dalla sua lucidità logica ormai affascinata dal vuoto, e con lui sé stesso, quasi che in fondo Caligola e Cherea fossero due determinazioni diverse ma intrecciate e speculari dello stesso modo di concepire la vita.
Così l'affermazione che chiude la pièce, quel gridato “Io sono vivo” di Caligola si presta alla doppia lettura del io sono rinato nella morte ovvero dell'io non posso morire perché sono l'eterno specchio di ciascuno.
Una ottima messa in scena quella di Emanuele Conte, che consapevolmente non ha scelto la versione più rappresentata, quella del 41, ottima soprattutto per la sua capacità di leggere un testo complesso  dalle intricate stratificazioni, filtrandole in movimenti recitativi talora illuminanti e sempre coerenti, assecondati dalla sua stessa efficace scenografia.
Ottimo il giovane Gianmaria Martini nel ruolo di Caligola, cui conferisce una notevole forza di identificazione, e altrettanto bravo Enrico Campanati, un Cherea dai tratti riconoscibilissimi di tanti intellettuali “organici” del nostro tempo.
Meritano peraltro una citazione per la qualità della recitazione tutti i protagonisti, da Viviana Alfieri una Cesonia dai gesti talora opulenti, a Giovanni Serratore, un cinico Elicone, dal giovane e algido Scipione di Luca Terraciano a Pietro Fabbri, Yuri D'Agostino, Marco Lubrano e Alessio Aronne, grotteschi e infingardi patrizi e senatori romani.
Costumi di Bruno Cereseto e luci e fonica di Tiziano Scali, dal 15 al 26 Ottobre.
Un successo tributato dal numeroso pubblico presente che ha chiamato più volte gli attori alla ribalta.