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Nel dire di “Too late”, il secondo contest del progetto drammaturgico dei Motus, “Syrma Antigones”, s’è posta l’attenzione sulla possibilità che oggi il mito abbia ancora efficacia politica. Un’efficacia politica del mito che si può cogliere soltanto a partire da una reale disponibilità ad percepirne le vibrazioni di senso ancora presenti nel tessuto vivo (e storicamente determinato) della nostra cultura. I Motus, in questo senso, sembrano essersi

realmente posti in ascolto, sembrano capaci di avvertire questa disponibilità come nuova urgenza e sanno esplicitarla, sia leggendo il mondo coi mezzi di un’autentica ricerca teatrale, sia cercando di capire, e di chiarire, quale possa essere la posizione in questo mondo tanto di loro stessi (la generazione dei quarantenni, estranea e troppo spesso lasciata fuori dai percorsi politici e realmente decisionali delle generazioni precedenti e ancora dominanti, se non a costo di un’omologazione priva di qualsiasi apporto originale) quanto delle giovani generazioni che a questo mondo si volgono proponendo nuove chiavi di lettura e nuovi linguaggi artistici. In altre parole: non si tratta più di capire se i miti abbiano ancora oggi valore euristico, ovvero se possano essere utilizzati per interpretare il nostro mondo, ma di capire piuttosto se un mito possa avere ancora (come del resto aveva nel campo della drammaturgia classica) un reale valore politico e di qual natura questo possa essere. Come per “Too late”, questa direzione di ricerca sta alla base anche di “Iovadovia (antigone) contest #3”, il terzo e densissimo segmento del percorso dei Motus sulle tracce del mito di Antigone. La regia è ancora di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, in scena ci sono Silvia Calderoni (antigone), Gabriella Rusticali (un Tiresia donna che canta in un inglese rauco e dolente, assai difficilmente comprensibile), il cane Bilia, mentre la musica dal vivo è eseguita da Andrea Comandini. Abbiamo visto questo contest a Gibellina il 28 luglio, ancora nel contesto della XXIX edizione delle Orestiadi. Questa volta il nodo drammaturgico è il rifiuto radicale di Antigone e Tiresia di subire la disumana condanna dell’oscurità. La dinamica spettacolare, come per il contest precedente, resta aperta: il pubblico condivide l’assoluta e simbolica oscurità di un lago nero ai bordi del quale è posta la tenda (la caverna dentro cui è sepolta Antigone), condivide il punto di vista di Antigone dall’interno per mezzo di una cam e di uno schermo, l’immaginario scenico allude abbastanza scopertamente a uno di quegli accampamenti di baracche e fragili tende che spesso s’intravedono nei confini, spesso bui, delle nostre luminosissime metropoli (ricoveri fragili e precari per ogni risma di disadattati e nomadi). Silvia/Antigone discute la sua situazione, esamina la sua dimensione, lo fa con se stessa, lucidamente, lo fa col pubblico, nel pubblico incontra il suo Tiresia, tende a escludere la possibilità di morire in quella grotta: «Rec #11, è da un mese che durante le prove cerchiamo di non fare morire Antigone, ma è impossibile, sembra che il suo destino non possa essere che questo… ma se muore Antigone è come se devo morire anch’io. No, troppo presto. Ci stanno addestrando a scomparire e io voglio essere visibile, ascoltata… e non voglio neanche andare via». Se è vero che è un paradosso disumano lasciare che i morti imputridiscano al sole (Polinice) e che i vivi siano seppelliti nell’oscurità di una caverna, in questo contest Antigone e Tiresia (reso cieco per aver troppo visto) decidono di sfidare fino in fondo quello che sembra il loro amaro destino e invece è l’esito necessario di una violenza politica e sistemica: decidono di ribaltarlo questo destino, certo andando via, ma volgendosi attivamente incontro ad esso, accettandolo fino in fondo come segno di radicale rivolta. Il riferimento testuale che prevale è, quasi immediatamente, il film della Cavani “I cannibali”: Antigone trova Tiresia a condividere fino in fondo la sua scelta, insieme saranno catturati, schiacciati, trucidati dal sistema, insieme saranno voce politica che annuncia e denuncia il profilarsi di “terrible things”. Ma accanto a quella della Cavani, la voce di Judith Malina: «Se uno ha il coraggio di essere colpevole crea conseguenze. Il nostro paese è capace di creare il tragico, ma poi lo trasforma in farsa… Adesso è il momento di trasformare il tragico in lotta…». Ecco il punto: l’arte non può più star ferma a guardare un mondo (il nostro) in cui troppi cadaveri di Polinice affollano le strade e imputridiscono al sole (o in silenzio ai margini della società), l’arte deve necessariamente schierarsi, alzare la voce, essere adulta e libera, deve ri-assumere la sua dimensione etico/politica, dev’essere essa stessa campo aperto e strumento di lotta. In questo campo, e soprattutto in esso, è possibile riascoltare le vive ed umanissime vibrazioni del mito. E se un mito, come quello di Antigone, è antichissimo e potente, allora alla lotta, che esso oggi sostiene e innerva, potrà aggiungersi la forza delle mille e mille generazioni che lo hanno ascoltato e che da esso si sono lasciate attraversare.