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Stavolta cominciamo direttamente dal testo. Parliamo della produzione inedita della Compagnia Maniaci D’Amore, fondata dagi autori-attori siculo-pugliesi Luciana Maniaci e Francesco D’Amore, formatisi alla scuola Holden di Torino, luogo da cui scaturisce l’incontro tra i due  e la fusione dei loro cognomi in una compagnia e in un progetto autoriale. Cominciamo dal testo proprio perché dai testi hanno cominciato questi due giovani, 29 anni lei, 31 lui. E soprattutto perché sul testo giocano, non solo nella scrittura e nel plot, ma soprattutto nel linguaggio e nell’uso teatrale delle sonorità dialettali, non quelle direttamente popolari, ma quelle dello slang giovanile. La ricerca linguistica, dunque, è uno degli elementi fondamentali di questo duo, oltre al recupero di tematiche che toccano di certo la società contemporanea, riportando quesiti, come nel caso di MORSI A VUOTO, che non sono del tutto “primigeni”. Si tratta, infatti, di tematiche curate, sottolineate, descritte e portate in scena spesso nella nostra contemporaneità, dunque, ben conosciute dal pubblico che va a teatro, ma riconoscibili anche da uno spettatore comune che si confronta quotidianamente con questi temi. Di certo i due autori-attori non vogliono spiegare nulla di nuovo, bensì vogliono descriverlo con mezzi nuovi. Il punto di vista è naturalmente quello giovanile, soprattutto quello di due giovani provenienti dalla provincia del Sud, che sfruttano il background geografico per estrapolare personaggi e storie, trasportandoli da microcosmi a macrocosmi. MORSI A VUOTO, prodotto in collaborazione il Festival delle Colline Torinesi, a monte gode dello zampino napoletano di Interno5, che da tempo ha scovato, scoperto e seguito il lavoro dei Maniaci D’Amore. Partiamo, dunque, dal testo perché è quello che ci interessa maggioramente, in questo caso, al di là della regia, affidata a Filippo Renda, e delle scelte sceniche. La storia di una ragazza di provincia, grassa – o meglio che si crede grassa-  ed insignificante, pronta a far di tutto per cambiare la sua vita, sposando un professionista ricco. Il risultato è una favola paradossale,  una Cenerantola-principessa dei tempi moderni, innamorata degli smeraldi verdi del suo futuro fidanzato-marito. Una volta riusciuta nell’impesa, il suo roseo ( o verde!) futuro viene sgretolato dall’arrivo di un ladro-angelo nero, che le rivela la realtà: il fidanzato non è ricco ed è anche fredifrago. Davanti all’evidenza dei fatti la ragazza continua a sostenere la sua tesi, perché la favola deve essere “raccontata”, soprattutto a se stessi, fino alla fine. Insomma, il fulcro centrale sono proprio i “morsi a vuoto” del titolo, cioè quell’atteggiamento di arrivismo e scalata sociale a tutti i costi che ci costringono a vivere in una società di apparenze, di ipocrisia, in cui il senso è dimostrare a qualunque costo di avere e di essere, per sopravvivere senza obiettivi. Emblematica la frase “Questo è un copione” che compare in scena, su tela bianca e scritta insanguinata: essere o apparire, e potremmo parlarne a lungo, sembrando ripetitivi. Il senso profondo, qui, non è il puro moralismo contro la società contemporanea: attestata la condizione di vacua profondità del nostro essere, qui a far da padrona è l’ironia.  La risata, ripetuta, intonata, fastidiosa, malata, grottesca, e soprattutto finta, ne è sintomo specifico. Dalla seduta psicanalitica al racconto della finta favola, fino al ricordo dell’Anna Cappelli ruccelliana ( il cui cognome viene citato, memori della frase “Tonino è mio!!”),  i due attori si vestono e svestono ripetutamente di panni non propri, mescolando personaggi e situazioni. Tempi e luoghi diversi, definiti in scena attaveso una stanza-tenda in cui si svolge la seduta psicanalitica, imput principale dell’intera narrazione. La scelta della caratterizzazione linguistica, sia sonora che dialettale, tocca anche i ritmi vocali. La protagonista femminile utilizza timbri elevati, sonorità acute e fastidiose, recitando con ritmi insostenibili in cui le pause non esistono. Le parole si sovrappongono, corrono veloci, si confondono. E forse oggi non è questo il modo di approcciarsi agli altri? Dire troppo per non essere interrotti, dire tutto per evitare di rimanere indietro, parlare e ridere, in una corsa senza freni.  L’utilizzo dello slang giovanile e dialettale riprota in scena una scelta coraggiosa: assenza totale di dizione, o meglio, studio approfondito delle caratterizzazione linguistiche. Le vocali aperte del siciliano, fino alle sonorità specifiche del barese, lingue di origine dei due attori. Ma ciò che colpisce, ad un ascolto attento della lingua, è che le frasi utilizzate, i modi di dire, i gesti, sono quelli tipici del mondo adolescenziale della provincia del Sud. Infantilismo linguistico, regressione psicologica, come se i protagonisti vivessero dei vuoti di sradicamento parentale e geografico.  Ancora una volta emerge l’edipica problematica delle origini. Ancora una volta i genitori creano figli malati, distorti. Le mancanze generano illusioni. Questo è il quadro poco felice che, però, in scena fa sorridere, ridere, ma a tratti non fa comprendere dove questo testo voglia portare. Di certo  vuole mostrare, testimoniare, descrivere, prendendosi e prendendoci in giro, e allungando, forse eccessivamente, la conclusione, quando già gli spettatori hanno compreso il senso. Attendiamo, dunque, di vedere, comprendere e confrontare gli altri testi dei Maniaci D’Amore,  già conosciuti e acclamati da un vasto pubblico, soprattutto di giovani spettatori.
Foto di Andrea Macchia

Teatro Piccolo Bellini Napoli
4-9 novembre 2014
MORSI A VUOTO
Festival Colline Torinesi
Festival Castel dei Mondi
Con il sostegno di Interno5
MANIACI D’AMORE
DI E CON
FRANCESCO D’AMORE
LUCIANA MANIACI
Regia di FILIPPO RENDA