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La fantasia o meglio l'immaginazione hanno spesso la capacità, meglio e più in profondità di ogni presunto “realismo”, di mostrarci e di spiegarci la realtà piegandola al ritmo incessante della nostra interiorità, in quello spessore arricchito di memorie ed aspettative che fonda il nostro rapporto con le cose. Questa drammaturgia poetica composta e diretta da Victoria Thierrée Chaplin, come noto figlia del grande Charlot, e che si compone sul palcoscenico amalgamando narrazione muta e simbologie intime, performance circense e mimica recitativa, ne è, credo, efficace dimostrazione.
Una casa da demolire e quindi da abbandonare, la storia di una vita, anzi di tante vite, che impregna quei muri ed una presenza fantasmatica che quelle voci, quei mormorii, raccoglie, difende ed interpreta mentre un operaio dai modi clowneschi tenta disperatamente di ottenere firma ed assenso alla liberazione e alla demolizione.
Da qui si dispiega il percorso narrativo e drammaturgico, sintatticamente articolato in fughe ed inseguimenti, apparizioni dolci e mostruose, affetti e amori di un tempo che sembrano, tutti insieme, nascondere, anche nel fallimento e nella tragedia, la forza di una vita che non vuole spegnersi e che dunque non si spegne.
Un teatro oltre il teatro, una narrazione in scena oltre la stessa recitazione questo di Victoria e di sua figlia Aurélia, fatto di apparati di scena incombenti e di perfetti sincronismi tra macchine e corpi danzanti e recitanti e che, così, sembra andare oltre lo stesso proscenio per espandersi inarrestabile tra le presenze mute della platea per implacabilmente coinvolgerle.
Un teatro inusualmente ed inaspettatamente “sentimentale” fatto di nostalgie e affetti caldi e significativi più delle parole poetiche, in cui le identità sono come assorbite dalle cose e alle cose danno identità ricevendone profondità psicologica.
L'utilizzo consapevole e abilissimo delle tecniche e delle modalità circensi, fatte anche di prestazioni atletiche e coreografiche oltre che di abilità attoriali, riconduce in questa drammaturgia il teatro alle sue radici  profonde, al suo “mostrare” e “dimostrare” il mondo anche divertendo, senza interromperne però od accantonarne il cammino verso la contemporaneità.
Aurélia Thierrée ne è protagonista indiscussa non solo per le sue qualità recitative e coreutiche ma soprattutto per la sua capacità, profondamente drammaturgica, di articolare la sua narrazione con il presente e le presenze della scena.
Intorno a lei i due co-protagonsti Antonin Mauriel e Jaime Martinez, il geometra “clown” ed il danzatore “amante”, riescono ad esaltare le loro indubbie capacità di scena, tra clownerie appena accennate ma abilissime, tra salti e cadute, tra slanci e sospensioni in cui il pensiero si espande.
Ma tutta la compagnia è da lodare per la capacità di organizzare con naturalezza uno spettacolo complesso oltre l'apparenza, a partire dai compagni di avventura scenica, insieme attori e tecnici come una volta, fino agli scenografi Etienne Bousquet e Gerd Valter che hanno dato concreta apparenza all'idea di Victoria Thierrée Chaplin.
Alla fine, dopo un inseguimento all'interno della mente, tra luoghi e presenze fantasmatiche simboli ben concreti di un pensiero e di un sentimento che cercano sé stessi, la casa viene sgomberata ed abbattuta e quel pensiero e quel sentimento, quella mente e quell'anima sembrano di nuovo liberi e libere di andare per il mondo.
Uno spettacolo molto bello che non ha età per un un pubblico che non ha età, al Teatro della Tosse di Genova dal 21 al 23 novembre, visto in una prima “tutta esaurita” con un pubblico che non voleva lasciar andare spettacolo e compagnia.