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Il bianco degli occhi. Avete mai guardato il bianco degli occhi? Avete mai osservato profondamente gli occhi di chi vi sta accanto? Il bianco degli occhi, non la pupilla. Quello che ingenuamente sembra un contorno e che invece è il “contenitore” principale della nostra iride: il bianco. Bianca è la scena. Bianca la profondità asettica di un dolore lacerante. Bianche le pareti, la luce che scende violenta dall’alto, bianchi i volti degli spettatori, investiti dalla luce che riflette e proviene, a sua volta, dai volti contratti degli attori,  luce accecante che riempie e colma le nostre menti attraverso le parole, vomitate, rovesciate. Ma forse proprio “vomitate” è il vocabolo più appropriato. Bianca come la lucida constatazione dei propri pensieri, chiara idea di ciò che si vuole dire. La lucidità dolorosa del dialogo monologato colpisce il pubblico napoletano. Nessuno escluso. In replica dal 18 al 23 novembre sul palcoscenico dell’ottimo cartellone di Galleria Toledo, osserviamo  Luca Lazzareschi e Anna Della Rosa nell’acclamato CLÔTURE DE L’AMOUR, drammaturgia e regia di Pascal Rambert.
Testo che ha debuttato al Festival di Avignone nel 2011, che ha vinto in Francia il premio della critica 2012 per la “Miglior creazione di un testo teatrale in lingua francese” e il Gran premio della drammaturgia 2012, e che oggi è tradotto in tutto il mondo. Inevitabile parlare di teatro di parola. La scena, qui, è parola, i cui portavoce, una donna ed un uomo, contemporanei e atemporali insieme, parlano di un rapporto che si è concluso. Amanti, marito e moglie, amici, descrivono, attraverso parole “vomitate” fuori dalle loro viscere, uno sgretolamento che di certo visivo non è, ma che si materializza visivamente sul palcoscenico. Costruire una regia ed una scena attraverso le parole è un’arte ormai dimenticata o di difficile realizzazione. Un vero colpo da maestro: Pascal Rambert fa centro. Elegante messinscena di un disastro personale, intimo e privato, che diventa immediatamente “umano”, nel senso più ampio del termine, e lo diventa da subito, sin da quando il pubblico ride ed ironizza sul meschino personaggio maschile, o piange, a grosse lacrime, quando rivive la reazione femminile. Non si può parlare semplicemente di amore e di rapporto concluso, bensì va in scena un processo molto più articolato, delicato e di difficile realizzazione. Grandissima palestra attoriale, in cui anche il silenzio, l’immedesimazione, la tensione muscolare, i movimenti impercettibili, i pugni stretti, le vene che pulsano sul collo, i movimenti accennati, i corpi ancorati al pavimento, caratterizzano la complessa interpretazione dei due impeccabili attori. L’animo in putrefazione rigurgita le viscere dolorose, svuotando il contenitore “corpo”, costringendo a piegarlo, a fletterlo, fino ad accartocciarsi su se stesso. L’eleganza e la bellezza testuale riescono a creare l’immagine, nonostante le scelte sceniche siano volutamente asettiche. I due protagonisti riempiono l’aria e il tempo attraverso un fluire corposo di parole che scivolano, macchiano, investono in piena faccia il pubblico, come fango indelebile, lava viscida, acqua di fognatura. L’ambiente serrato di una palestra, forse le quinte di un teatro: palestra di vita che è il recitare, il fingere, l’indossare la maschera. Terminologia teatrale che si ripete, che ripercorre la vita dei due protagonisti, ora attori che lavorano insieme ad uno spettacolo (reale?), adesso spettatori della loro stessa vista, attraverso una tecnica narrativa in cui i flashback sono quelli dei romanzi e dei racconti. Ricordi, anch’essi vomitati, ingoiati e poi sputati, anch’essi elementi testuali che ricostruiscono la scena, ma attraverso un processo arduo, coraggioso, poiché tutto ciò che abbiamo visto si è materializzato nelle nostre menti e non nei nostri occhi, assumendo molteplici sfaccettature multiformi, all’interno del bianco dei nostri occhi. Qui non servono effetti speciali, non servono arredi di scena, non servono movimenti complessi. Serve ascoltare, ogni singola, minuta, parola, ogni intonazione, ogni variazione di ritmo, ogni pausa, in un complesso intersecarsi di sensazioni, anch’esse derivanti dalle parole, loro, le grandi protagoniste. Le parole sono i personaggi principali e attraverso di esse è possibile far vivere questo spettacolo. Gli attori sono contenitori esponenziali, sono mezzi artistici e meccanismi pregiati attraverso i quali è possibile creare immagini nella mente degli spettatori. Il tema doloroso dell’addio colpisce profondamente il pubblico: osservare molti degli spettatori, giovani o adulti, piangere profondamente, destabilizza. Non si tratta di immedesimazione, o meglio, è una componente importante che di certo, in parte, agisce sul pubblico. Ciò che forse non si comprende subito è che ogni singola parola, suono o costruzione frasale, è profondamente pensata per descrivere un dolore perforante che risucchia la linfa vitale. Gli attori recitano e appare finta anche l’espressione del  loro pianto e dei loro sentimenti. Le parole violentano psicologicamente gli spettatori. Qui non assistiamo ad una storia in cui si vuole mostrare un’accozzaglia di sentimenti e portare avanti un intento sociale, bensì un discorso sul dolore, un’interrogazione profonda. Per quanto questo testo possa essere autobiografico, o forse no, per quanto possa descrivere l’amore finito di una coppia sposata con bambini,  qui il livello semantico è superiore, così come diverso e profondo è l’impatto. In scena ritroviamo l’animo umano che muore e degenera lentamente, attraverso le parole, rinsecchisce come il fusto di un albero che non sta più eretto, ma si accascia, secco, al terreno. Il surrealismo della rappresentazione prevede l’entrata in scena di un coro di bambini che si posiziona al centro del palco: i due attori  aggirano il gruppo di piccoli cantori e si scambiano le posizioni. Il ring della vita si ribalta. Le uscite di sicurezza di questa palestra- vita sono serrate ma adocchiate continuamente dai due. Impossibile fuggire, le parole dolorose hanno riempito lo spazio. Nessuno può andar via, si è ancorati al dolore, inchiodati alle tavole del palcoscenico. E quando il gioco della vita riprende, si indossano le maschere e i pennacchi di uno spettacolo ridicolo che ci ostiniamo a vivere. Malgrado tutto.

CLÔTURE DE L’AMOUR
GALLERIA TOLEDO NAPOLI
18-23 novembre 2014
Di Pascal Rambert
Regia Pascal Rambert
Con Luca Lazzareschi,
Anna Della Rosa,
con la partecipazione straordinaria di
Coro della Scuola Spazio ZTL - ZurzoloTeatroLive
Diretto da: Manuela Renno
Direttore Artistico: Marco Zurzolo
e del Coro della Scuola IAAM
Diretto da: Fiorella Orazzo