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È passato un secolo da quando è scoppiata la Prima Guerra Mon­diale: tradizionalmente, infatti, l’episodio che ne segna l’inizio è rappresentato dall’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono dell’Impero Austriaco, a Sarajevo nel giugno del 1914. Probabilmente non c’è più alcuno in vita dei combattenti di questa guerra ma, a parte la copiosa storiografia e la letteratura (Ungaretti, su tutti), molti italiani ne ricordano ancora oggi i racconti vivi e dolorosi fatti dai nonni, dai bisnonni, dagli anziani dei paesi e delle città. Una guerra di confini e lunghe e profonde trincee fangose, di cecchini e fanterie (povera gente, soprattutto, contadini e ragazzi di ogni parte d’Europa e d’Italia), una guerra di lunghe attese, al freddo dei ghiacciai o lasciati i soldati a marcire nel fango e sotto la pioggia. Una guerra di assalti improvvisi, assalti in cui gli uomini, solo carne da macello, venivano spinti da dietro e costretti ad avanzare dagli ufficiali (che, armi in pugno, spesso nascondevano la loro disumana ferocia e la loro vigliaccheria nelle menzogne del più bieco militarismo e della più assurda disciplina), e falciati a migliaia dalle mitragliatrici e dalle artiglierie. Una guerra di potere e menzogne, un’infame avventura pensata e voluta da minoranze fanatiche e guerrafondaie (basti pensare al turpe motto del futurista Marinetti: «la guerra sola igiene del mondo») che ben presto si rivelerà in tutta la sua tragica, miserrima, realtà. Una guerra di miseria infine, vissuta anzitutto dalle donne e dalle famiglie che restavano senza mezzi di sostentamento e poi dai reduci che, tornati alle terre d’origine, spesso storpi e sfigurati, faticavano a reinserirsi o non ci riuscivano affatto, magari col vergognoso e miserabile ben servito mensile di una pensione di “una lira e 58”. Un evento di così straordinaria e disumana violenza insomma che davvero sembra incredibile che, dopo di esso, dopo la ferita che esso ha impresso nella cultura europea, possano esserci state altre guerre, e ancora ce ne siano, che abbiano visto, e vedano, protagonisti i paesi dell’ Occidente, proprio i nostri paesi (Francia, Inghilterra, Austria-Ungheria, Serbia, Russia, Italia, Belgio e Stati Uniti). Solo “una disumana carneficina”: è giusto che questo evento oggi sia rammemorato e che, lasciata cadere ogni vuota maschera retorica e nazionalistica, sia chiamato col suo nome. A ricordarci, doverosamente, tutto questo uno spettacolo di narrazione e canti, co-prodotto dal “Biondo” di Palermo e da Promo Music (in collaborazione col Ravenna Teatro Festival) che ha debuttato in prima nazionale venerdì 13 e sarà in scena a Palermo fino a domenica 23 novembre, per iniziare subito dopo la sua lunga tournee. Teatro politico e civile, nella migliore delle accezioni, teatro popolare e, in qualche modo, anche “epico” (ovvero teatro che costringe a pensare) proprio nel senso brechtiano del termine: in scena Moni Ovadia e Lucilla Galeazzi che spendono senza risparmio la loro energia d’interpreti coi giovani del coro del Conservatorio “Bellini” di Palermo e con quattro musicisti che suonano live (Paolo Rocca, Massimo Marcer, Alberto Florian Mihai, Luca Garlaschelli). Uno spettacolo che, al di là della commovente bellezza dei canti (tra tutti, la bellissima canzone “Gorizia”), al di là della potenza della narrazione, fa giustamente parlare i numeri prima di tutto: «tra il 1914 e il 1918 morirono ogni giorno sul campo di battaglia più di 2000 uomini, fino a portare il totale delle vittime a circa 8 milioni e mezzo di caduti, ai quali poi si devono aggiungere i soldati morti in seguito e le vittime civili. Si arriva perciò a scoprire che più del 50% degli uomini impegnati nel conflitto furono fatti prigionieri, feriti o uccisi. Per quanto riguarda il quadro delle perdite per classi di età, il 12% circa del totale degli uomini caduti in combattimento aveva meno di 20 anni, mentre il 60% del totale degli uccisi aveva tra i 20 e i 30 anni. Se si applicano queste stime al totale delle perdite subite dalle potenze centrali e alleate, si ottiene un totale spaventoso di quasi 4 milioni e 750.000 morti di età inferiore ai 20 anni».