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Drammaturgia con la quale Margherita Rubino ridisegna in scena, riproponendoli e riepilogandoli, tre monologhi a suo tempo scritti da Dario Fo per la compagna Franca Rame che, al di là dell'apparenza, ne appare, credo, non solo l'ispiratrice ma comunque la drammaturga intrinseca ed intima. Una sola donna, qui la brava Raffaella Azim, per tre circostanze occasionali ma insieme idiomatiche, “La donna grassa”, “Rientro a Casa” ed infine tragicamente essenzializzante “Medea”, nella quali Fo e la Rame interpretano e ridefiniscono alla loro maniera, tra il comico ed il grottesco smascherante, le tensioni identitarie del femminile nel suo rapporto con l'uomo, una maschera anzi un gesso paralizzante sempre più incongruo e per questo sempre più mal sopportato.
Tematiche queste note e anche caratterizzanti della idea di Teatro della coppia, ma in particolare di Franca Rame tesa sempre a coniugare la creazione artistica con l'impegno (anche se questa è parola nel frattempo divenuta se non abusata spesso male-usata) nel mondo, qui però riscritte in una sorta di viaggio peripezia che ne sottolinea, a mio avviso, la profondità temporale, con un percorso ed una evoluzione che però, paradossalmente, inquieta.
Quasi che i primi due quadri rivisitassero i ruoli del femminile in un contesto psicologico e sociologico forse superato, ove sentimento, nostalgia, attrazione e insieme rifiuto potevano ancora essere declinati per poi andare dispersi, lasciando solo una lucida rabbia, quella di Medea che con l'uccisione dei figli non compie solo una vendetta verso l'uomo ma simbolizza l'uccisione di sé stessa in quel ruolo.
È come se, nella dispersione dei segni tangibili e concreti del potere in una società ormai liquida da molti teorizzata, e dunque nella crisi di un modello patriarcale che quei segni alimentava e di quei segni si alimentava, definendo ruoli e quindi consentendo anche la rivolta e non solo il rifiuto, si fosse “liquefatto” anche il senso di una definizione in maschile e femminile dei ruoli e dunque la possibilità di una loro ri-legittimazione in senso paritario e di reciproca libertà.
Lo spettacolo pertanto non sfugge, almeno nei suoi primi due quadri, ad una involontaria sensazione di “datato”, di un femminismo incompiuto, fin quasi a disperdere nella tragica durezza dell'ultimo monologo anche la forza molto fisica, e qui molto ci manca la presenza scenica di Franca Rame, della risata che, come recita il foglio di sala citando Molière, può aprire il cervello.
Uno spettacolo comunque di spessore, nella drammaturgia, nella recitazione e anche nella  regia di Ferdinando Ceriani, intenso anche nel mostrare i limiti di un possibile discorso sul femminile in una contemporaneità che vede ruoli ed identità quasi confondersi e sovrapporsi proprio a scapito di quel cuscino di emozioni e sentimenti che erano il motore della risata “che vi seppellirà” di Dario Fo e di Franca Rame e di cui è purtroppo sempre più difficile rintracciare i lasciti.
La risata si fa così accennata, contingente e con un retrogusto amaro di rabbia e anche di disperazione priva di futuro.
Spettacolo prodotto da Teatro della Pergola / Compagnia Molière, nell'ambito di un progetto internazionale curata da Maurizio Scaparro, è in scena al Teatro Duse di Genova dal 14 al 18 gennaio, per le Compagnie Ospiti dello Stabile. Le scene e i costumi sono di Marta Crisolini Malatesta e le musiche di Fiorenzo Carpi.
Il pubblico, che ci aspettavamo più numeroso all'esordio, ha applaudito con convinzione.