Pin It

“Go Down, Moses”. Un imperativo, un comando proveniente dalle pagine di un antico libro - e che in passato si è smorzato nei toni del canto blues dei neri d’America - ora si dissolve e si ricompone per immagini, grazie allo spettacolo di Romeo Castellucci, in scena in questi giorni al Teatro Argentina. L’indiscusso lavoro di rielaborazione del regista cesenate si ispira alla missione di salvezza narrata nell’Esodo, da lui trasfigurata in una nuova chiave, che ne ritrova i principi sottesi superando ogni determinazione di spazio o di tempo.  
La visione - semplice nel suo minimalismo, complessa nella sua densità significativa - procede per quadri, frammenti di realtà parallele il cui significato si ricompone nella sensibilità e nel vissuto del singolo. I segni sono lì, sparsi nello spazio di luce che di volta in volta ridisegna la scena, dietro il velo trasparente che, come una pellicola, ovatta il nostro guardare conducendoci in una dimensione intermedia tra sogno e realtà. In un limbo, in cui lo sprone a una giusta ma vana ricerca (di dio? Dell'io? Spetta all'osservatore partecipante deciderlo) trasmigra nel senso d'attesa e di cosciente abbandono.
Quei segni agiscono in più forme, come nelle sembianze materiali di compìti borghesi, il cui vagare, nel deserto della moderna indolenza, si riflette in quella degli stessi noncuranti spettatori, a cinque minuti d'anticipo da quello che si annuncia essere l'effettivo inizio dello spettacolo. L'immagine di un animale su di una pergamena è per loro motivo ricorrente di aggregazione, che accende e subitaneamente spegne il conforto di una falsa credenza, di un “agnello d'oro” privo di sollievo da cui riprendere il peregrinare.
Quando la dissolvenza riscopre la scena, un rullo meccanico dal suono metallico troneggia nel suo voltaggio. Dall'alto, una parrucca scende delicatamente, avvinta dalla forza attrattiva di quel movimento frenetico, che risucchia l'oggetto nei suoi infiniti e veloci giri. In un effetto sinestetico in cui visione e ascolto si completano, la suggestione prodotta si impiglia nella mente, afferrando per le stringhe di una recondita inquietudine. È il turbamento nel “roveto ardente”? Il timore di avvicinarsi al mistero della fiamma che non brucia? La paura di una missione di salvezza comandata dall'alto? A ciascuno la possibilità di dare una risposta o sostare nell’intima percezione lasciata dalla visione. Quella di una realtà dal sapore più amaro di quanto prefigurato dall’antico testamento. Il sapore del ferro, del sangue che in un'inarrestabile emorragia colpisce una donna in un bagno pubblico, in preda ai dolori del parto. L'immagine di un cassonetto si accompagna allora a parole di dolore per un abbandono forzato da cause maggiori, che si esauriscono e si giustificano nel ventaglio di emozioni, dalla più triste alla più ammiccante, suggerito dagli smileys proiettati sullo schermo. L'interrogatorio alla polizia che ne segue e i deliri (o forse no) della donna, madre di un Mosè nato per liberarci, chiudono così l'unica sequenza lineare, ma non didascalica, dell'intero spettacolo.
A procurare una nuova frattura, a proiettarci un una dimensione altra, è un macchinario per la risonanza magnetica. Un portale che agisce su spazio e tempo, che ci lascia precipitare in un paesaggio rupestre, dall'atmosfera lunare, onirica, dove la vita dei primi uomini è spezzata dal dolore della perdita di un figlio, dalle dinamica di bisogno e appagamento date dal mangiare e dal riprodursi. Necessità primarie che sembrano piuttosto riempire un vuoto, culminante nella richiesta dell'SOS, nel battito sordo dei palmi contro i confini di quel mondo in cui dall'origine siamo intrappolati senza rifugio.
Con incredibile perizia e capacità di sintesi, Romeo Castellucci presenta un lavoro compiuto i cui simboli e significati oscillano tra icona e pensiero, abbandonano presto il proprio corpo figurativo per farsi concetto, astrazione esistenziale in cui si specchia il riflesso di una comune desolazione della perdita e della rassegnazione, nell'attesa di un Godot o di un suo profeta, che indichi la via della salvezza. La strada verso una terra promessa, che non sia altro forse che la riappropriazione del proprio essere più intimo.
Ecco allora che nelle mani di Castelluci quel “Go down, Moses” si trasforma da imperativo divino di liberazione a preghiera, intima, soffusa che riverbera sottilmente nell’essere umano.