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Che la morte rientri nell’ordine naturale delle cose è pensiero che non ci piace sfiorare. Quando la scomparsa poi è quella di un nostro affetto, la paura paralizza muscoli e mente, non consentendo di trovare rimedi per esorcizzare un dolore che faticherà a lungo a guarire. Sdrammatizzare il dramma della perdita è invece l’operazione compiuta da Fausto Paravidino ne “I diari di Maria Pia”, spettacolo in scena fino al 25 gennaio al Teatro dell’Orologio, che ripercorre con estrema delicatezza e ironia gli ultimi mesi di vita della madre del regista.
A un anno di distanza dalla perdita del marito, le condizioni di Maria Pia (una dolce e misuratissima Monica Samassa), medico di campagna, si aggravano repentinamente. Che sia colpa dei soliti problemi al fegato o di quelle due macchioline trovate al cervelletto è difficile a dirsi, dal momento in cui le metastasi hanno preso il sopravvento, segnando la sua imminente condanna. Nei giorni di degenza all’ospedale, in cui le forze abbandonano d'un colpo solo il corpo della donna, il suo spirito volitivo si piega all'ineffabilità della fatigue, a quel “mare di ovatta” in cui tutto sembra precipitare perdendo completamente di senso. Contro quel “rullo compressore”, quell’astenia che riduce al nulla il volume di un’intera esistenza, l’idea di un diario dettato al figlio Fausto, in cui raccontare il suo stato, diviene strumento per guardare a ritroso la propria vita. Con dovizia maieutica, grazie all'aiuto e alla vicinanza dei suoi cari, Maria Pia risale la superficie dei ricordi, riflette sulle esperienze passate, ritrovando con fine intelligenza e senza scontatezza il significato delle cose davvero importanti, che solo il dramma della malattia può far riemergere. Solo così potrà riempire quel vuoto creato dall'impotenza, arrivando ad affrontare serenamente la morte.
Attraverso lo strumento dell'ironia Fausto Paravidino restituisce al difficile tema della malattia e della morte una consistenza umoristica, umana, rovesciando il paradosso drammatico e sciogliendolo nel disarmo di un sano ridere. Su una scena scarna quanto essenziale, con alcune quinte disposte a semicerchio e pochi funzionali oggetti, sono i due attori (lo stesso regista e Iris Fusetti) a raccontare quei giorni, vissuti in prima persona, entrando e uscendo dai propri ruoli di figlio e della di lui compagna, per prendere i panni di un familiare, di un medico, di una vicina di letto, traendo da essi i segni di una marcata quanto caricaturale caratterizzazione. Portando in scena la teatralizzazione della morte, la pièce esorcizza l’angoscia di un’improcrastinabile fine, ribaltando l’atmosfera di una veglia funebre nella vitalità di una festosa parade. Il ventaglio di affetti ricreato, sfila e si muove allora attorno alle parole di Maria Pia, aiutandola così nel cammino verso l'ultimo saluto. Un saluto che, seppur doloroso, non si scioglierà semplicemente nel pianto, ma che riscoprirà la forza dolce e arguta di un ultimo eterno sorriso.

Foto Manuela Giusto