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Edoardo Sanguineti riteneva le traduzioni dei classici una attività non eminentemente filologica o letteraria, anzi, proprio laddove fosse stato “filologicamente” rispettato il testo (le sue ormai note traduzioni a calco) le traduzioni stesse potevano manifestare una profonda capacità di metamorfizzare la narrazione in fatto di spettacolo, in teatro.
Questo a mio avviso ha fatto Beppe Navello proponendo la sua traduzione di questo testo, poco conosciuto ma certamente non minore, di Pierre de Marivaux, ha fatto teatro nel senso più genuino e sincero, perché ricordando Antonin Artuad “il teatro non è rappresentazione o azione ma evento. Si offre cioè come un nuovo piano di proiezione materiale e reale” oltre che ideale.
Una scelta ed una intenzionalità coraggiosa quella di Beppe Navello di proporci il testo tradotto, lo scrive lui stesso, “come un copione per il palcoscenico, costruito con gli attori e con i musicisti che dovranno pronunciare e cantare quelle parole”.
Una scelta coraggiosa costata oltre quindici anni di fatica in una generale incomprensione del mondo teatrale italiano che pone credo dei problemi, non tanto organizzativi quanto forse culturali nel fastidio mostrato verso un testo apparentemente semplice e rarefatto, verso quel plot solo apparentemente superato e privo di interesse, verso una lingua forse troppo “intelligente”, ma dettato penso dalla difficoltà a percepire il valore della trasmissione di senso “tra Teatro e Mondo”, dentro e anche oltre la mediazione delle maschere, proprio di quella riforma ancora attuale.
Una capacità di mediazione tra mondo interiore e mondo esterno, tra sentimenti e azioni che il testo conserva intatta e la drammaturgia di Navello non fa che mettere sotto i nostri occhi. In sostanza una prova di ribadita contemporaneità.
Una prova di contemporaneità peraltro che non sta solo nella articolazione estetico/drammaturgica, di cui la traduzione finalizzata alla rappresentazione è il cardine, ma che viene ribadita nella narrazione a conferma della straordinaria e sorprendente capacità dei classici di restare sempre aderenti all'intimo dei nostri mutamenti e delle nostre peripezie.
Così è l'evento stesso che ora ci appartiene, non ci deve essere “descritto” o “interpretato”.
Cosa c'è infatti di più moderno del denaro che corrompe, rendendo in questo straordinariamente tutti eguali, dal padrone al servo, cioè in fondo tutti schiavi, di più moderno dicevo in una società come la nostra in cui ogni altro valore sembra diventato relativo in rapporto ad esso.
Una favola morale quella di Marivaux, ma mai moralistica, in cui la sintassi limpida e trasparente, la lingua distaccata e sottile agisce paradossalmente, senza mai perdere ironia e sorriso, come una lima che scrosta ogni ipocrisia, come contrappunto intellettuale che frena ogni scivolamento nella volgarità, come vascello che si offre al salvataggio degli schiavi del “Dio Denaro”, nella bella tenuta di Armida e Aminta, nell'Olimpo di Plutone e di Apollo, nelle difficoltà del vivere di Spinetta e Arlecchino e infine nel buio della Platea.
Beppe Navello costruisce dunque, a partire come detto dalla traduzione, una drammaturgia in un certo senso molto più sua che di Marivaux (e non ce ne voglia il francese che tanto amava i teatranti italiani), in cui la mescolanza di musica e recitazione si trasformano in impasto multisegnico che salta i secoli recuperando barocco e vaudeville, avanspettacolo e alienazione distaccante e dissacrante, fin quasi a mettere in scena un possibile karaoke con il pubblico incerto se cantare insieme ai protagonisti il lungo “gobbo” che chiude lo spettacolo.
E a proposito di “gobbo” finale, a richiamare il fatto che senza pubblico non c'è teatro, l'ultima strofa è un ironico invito a perseguire strade nuove per il teatro, altrimenti se questo rimane a coltivare il consueto (ogni allusione è consentita) allora “lo spettatore,/ Buon recensore,/ Contro l'autore,/ Fa del rumore;”.
Una produzione Fondazione Teatro Piemonte Europa finalmente, verrebbe da dire, in scena al Teatro Astra di Torino dal 31 gennaio al 12 febbraio. E' una drammaturgia complessa quella di Beppe Navello, in sé stessa e anche dal punto di vista tecnico produttivo ma che ha avuto, grazie al contributo di molti, una realizzazione efficace e di alto livello.
Su testo, autore, traduttore/drammaturgo e regista abbiamo detto. In scena una compagnia di giovani molto bravi, per gestualità, mimica e tonalità, nell'approcciarsi ad una messa in scena certamente non abituale per ritmi, movimenti e sintassi scenica, eterea in apparenza ma con la concretezza della ragione che non sconfina mai nella volgarità. Tutti all'altezza dunque, da Camillo Rossi Barattini (Apollo-Ergasto), a Alberto Onofrietti (Plutone-Riccardo), Diego Casalis (Armida), Daria Pascal Attolini (Aminta l'oggetto del desiderio), Stefano Moretti (Arlecchino), Eleni Molos (Spinetta) e Riccardo di Leo (musicista con seguito).
Ben dentro e ben amalgamati i musicisti in scena, vera eco specchiante della narrazione, dalla soprano Cristina Arcari ad Andrea Bianchi (pianoforte), Diego Losero (clarinetto) e Andrea Maffolini (violino).
Le musiche elaborate sulla base di partiture barocche originali sono merito di Germano Mazzocchetti, le scene, in un barocco volutamente disadorno e stilizzato, di Francesco Fassone, i costumi, vivamente antropomorfi, di Augusta Tibaldeschi. Infine rimarchevoli le coreografie di Paolo Mohovich e le luci di Marco Burgher.
Da ultimo merita una citazione il bel libretto con il testo in italiano edito per l'occasione da Lantana, comprendente gli utili contributi critici di Gabriella Bosco e Myriam Tanant.
Un tutto esaurito, a smentire i tanti falsi profeti che, per così dire, hanno “accompagnato” Beppe Navello in questa sua avventura, ed una accoglienza veramente calorosa del pubblico che ci auguriamo convincerà tanti altri teatri, anche pubblici, della utilità e della contemporaneità di operazioni intelligenti, e questa lo è, sui classici, salvo che non sia proprio questa lucidità a renderli ostici a molte orecchie.