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Alzi la mano chi almeno una volta in vita sua non ha provato paura... Fausto Paravidino, Premio Hystrio alla drammaturgia “autore capace di ritrarre con efficacia e umanità un mondo alla deriva sempre in bilico fra tragedia e commedia”, nello spettacolo I VICINI affronta il tema delle paure reali e immaginarie, malattia sociale dell’uomo contemporaneo. La paura è una delle più potenti emozioni che attraversano la nostra società. Essa può fare riferimento a un pericolo reale o immaginario, imminente o possibile, suscitare allarme o generare comportamenti di lotta o di fuga. Nella società di massa assistiamo ad una socializzazione della paura, potenziata dai mezzi di comunicazione. Per questo molti sociologi e antropologi contemporanei parlano di un nuovo totalitarismo che limita le libertà e riduce la democrazia a una vuota formula. La paura dello straniero, la paura del diverso, la paura della crisi, quanta cattiva politica nel nome della paura. Fausto Paravidino porta tutte queste paure in scena cercando di ottenere un effetto noir che abitualmente vive nel cinema e nella letteratura. Nelle sue opere il giovane autore (in questa pièce è anche regista e attore) si pone il problema di rappresentare le dolorose crisi dell’uomo contemporaneo, ricercando nuovi modi raccontarle, di rappresentarle, viverle.  E in modo particolare, con questo testo, lo fa attraverso un processo di scrittura che procede per livelli successivi, come un’astrazione: si va dalle paure più semplici fantasie della nostra mente a quelle più vere: la paura della guerra raccontata da un’anziana signora morta, di recente: un fantasma. Si va da certi fantasmi di paure a un fantasma che narra invece una paura reale realmente vissuta da milioni di persone. Un uomo e una donna vivono nella loro piccola casa, nella loro tranquilla quotidiana routine, interrotta improvvisamente dall’arrivo dei nuovi vicini. «Lui sente dei rumori provenire dal pianerottolo. Cercando di non farsi sentire va a guardare dallo spioncino. I rumori cessano. Ritorna al suo posto. Quando Greta torna a casa glielo dice, mentre lei non c’era lui ha visto i vicini. Com’erano? Lui non sa dire, vedere non è capire, però ne ha paura. Perché? E chi lo sa, se sapessimo esattamente di cosa abbiamo paura, probabilmente paura non ne avremmo. E Greta? Greta no. Greta non ha nessuna paura dei vicini. Anzi, non vede l’ora di farne la conoscenza, lei ha paura della vecchia. Che vecchia? La vecchia che vede di notte. La vicina che c’era prima di morire. È’ un sogno? No. È un fantasma?» Il dispositivo drammaturgico è decostruzionista si muove fra modernismo e postmoderno, fra la tradizione delle grandi narrazioni e la loro frantumazione; chiuso all’interno di un piccolo soggiorno a ridosso del palcoscenico, immergendo il pubblico nella scena liquida della piccola casa, come nelle avanguardie teatrali del primo novecento. Iris Fusetti, Davide Lorino, Monica Samassa e Sara Putignano assecondano con bravura queste finzioni poetiche. Le scene di Laura Benzi creano quel senso di soffocamento proprio come avviene nelle stanze della mente prigioniere di paure ingiustificate. Amplificate dalla regia della luci di Lorenzo Carlucci e dalle musiche di Enrico Melozzi, ombre insolite sulle minuscole pareti e ombre acustiche nei padiglioni auricolari dello spettatore, creano ritmi e suspense. Avanti e indietro nel tempo senza tempo (disorientando volutamente anche lo spettatore che si sforza di rimanere a galla fra tutte queste paure), dall’avanguardia, al recupero della tradizione occidentale. Dall’eccesso di parola ai comici del cinema muto, la regia gioca anche con i piccoli gesti. I piccoli tic di Paravidino, i movimenti del collo e del capo diventano funzione metalinguistica del gesto come commento a un discorso verbale: un piccolo Buster Keaton contemporaneo, sempre più smarrito, disincantato, perso nell’opacità delle nostre incomprensibili vite. 

Milano, Teatro Elfo Puccini, 4 febbraio 2015
Foto M. D'Angelo