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C’è una vecchia canzone di Enzo Jannacci, che penso tutti conoscano, che recita, a un certo punto e tra l’altro, “per vedere di nascosto l’effetto che fa”. Questo mi sembra il senso dell’ultima, come di altre, drammaturgia di Emanuele Conte che rivisita il suo rapporto con il pubblico oltre il semplice e tradizionale coinvolgimento (la quarta parete che crolla) verso un vero e proprio ribaltamento e smascheramento, consapevole o meno che sia, del suo ruolo nello spettacolo. Un costruire lo spettacolo per vedere, appunto e di nascosto, “l’effetto che fa”.
In effetti con questa drammaturgia in scena alla sala Campana del Teatro della Tosse di Genova, Emanuele Conte e Amedeo Romeo riscrivono, con sintassi narrativa e tessitura scenica del tutto originale e intrigante, i misteri della shakespeariana notte di mezza estate all’interno di un Kabaret dai toni berlinesi anni 30 ma in realtà fuori dal tempo, e li sciolgono in un contesto senza confini in cui spettatori mascherati e attori, tavoli e poltrone di platea si mescolano in un effetto di carnevalesca festa straniante che apre cuore e mente ai travagli del bardo e delle sue creature.
Oberon, Titania e compagni hanno ormai abbandonato il bosco che li proteggeva magicamente dallo scorrere del tempo e sono immersi nella storia che li invecchia forse ma certamente li delude. Il ricordo si appanna ma la dinamica del sentimento non si attenua e si riproduce in loro con forza inesausta, ma con forme paradossali che tra musica e poesia scivolano in un comico senza retorica e grottesco.
Lo spettacolo riproduce così l’amore e i sentimenti come dinamiche senza tempo che trovano nomi e contesti diversi che però non riescono a cambiarle. Peripezia rinnovata, dunque, dell’amore che non si incontra se non con sé stesso, ospita nella versione di Conte e Romeo, poesie immortali e canzoni originali ed una disincantata e critica Giulietta senza il “suo” Romeo.
Ma soprattutto, come nelle intenzioni credo dei drammaturghi, ospita l’anima del bardo e l’anima del teatro come illusione che invera, come maschera che smaschera in una sorta di palcoscenico che si moltiplica nel tempo e nello spazio.
Perché, come dice Berowne in “Pene d’amor perdute” a Rosalina : <<Per cominciare, ragazza – Dio m’aiuti, lo giuro! – il mio amore l’è sano, sans difetto e incrinatura.>>. E Rosalina: Sans sans, prego>>.
Scatole cinesi da riempire come la spassosa rivisitazione degli ateniesi commedianti dilettanti alle prese con la tragedia di Piramo e Tispe magistralmente e significativamente condotta dal “grande” ipnotizzatore proto-psicanalista.
La regia è di Emanuele Conte, sempre a suo agio in questa sua rivelatrice iconoclastia teatrale, che ben organizza una compagnia all’apparenza assai confusa (tra il pubblico e con sé stessa). In scena con Enrico Campanati, un Oberon dalle improbabili simpatie naziste, e a Rita Falcone, una Titania molto ispirata a Marlene Dietrick, l’intera compagnia dà un’ottima prova tra mascheramenti e smascheramenti, coreografi e canzoni, con un amalgama recitativo eccellente.
I costumi, da Cabaret holliwoodiano, sono di Bruno Cereseto, le canzoni originali sono di Federico Sirianni tranne quelle di Juliet, creazioni di Viviana Strambelli che la interpreta.
Dall’11 al 22 febbraio per un pubblico che non ha risparmiato in entusiasmo, in abbinamento con la ripresa del bel “Sogno di una notte d’estate” visto e recensito lo scorso anno.

Foto Donato Aquaro