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Immagini iperboliche di crisi apocalittiche - dell'arte, del linguaggio, del denaro, del reale - si rincorrono nello spettacolo di Rafael Spregelburd, in scena in questi giorni al Teatro India. “Furia Avicola”, traduzione dai toni catastrofici quanto parodistici di “Angry Birds” - gli uccelletti arrabbiati del famoso videogioco - è la naturale prosecuzione del lavoro nato nel 2012 all'Ecoles de Maîtres, sfociato in una regia a quattro mani che consolida il sodalizio artistico del drammaturgo argentino con Manuela Cherubini.
La pièce nasce quasi come un urgenza di consapevolezza, scandita da due quadri più un intermezzo, in cui la scrittura di Spregelburd ribalta quelle costruzioni logiche che rassicurano l'ordine complesso del nostro vivere per svuotarle ironicamente di significato. A partire dal restauro improvvisato e malriuscito dell'”Ecce Homo” per mano di un'anziana parrocchiana di Borja, la riflessione accademica ritorna sul punto nodale di ciò che possa essere univocamente riconosciuto come gesto artistico. “Cos'è o non è l'arte?”. Difficile stirare la ruga di questa sottile linea di confine, in cui i criteri oggettivi si scontrano con l'arbitrarietà soggettiva di una (in)sensibilità tutta contemporanea. Poco importa però rispondere alla domanda e porre dei distinguo perché, epifenomeno dello spirito del tempo in cui si rispecchia, “la crosta” di turno è già parte del meccanismo social, vanta una sua dignità e per questo dei diritti, annullando di fatto ogni fiducia nel rigore della logica causale.
Di fronte a una realtà resa poco per volta inintellegibile dalla rigidità delle nostre stesse categorie e dall'imprevedibilità di esiti ed eventi, il linguaggio – che poi è articolazione del pensiero – dovrebbe costituire un'ultima ancora di salvezza, appiglio con cui ricomporre il mondo dallo scollamento di strutture tanto agognate e poi rifiutate. Il fallimento anche di quest'ultimo tentativo è invece endemico, si palesa nel corso dell'intermezzo, con la babele di sensi in cui si è continuamente calati, a fronte di contestualizzazioni sempre più necessarie che, nonostante tutto, non rimediano completamente a una crisi che è anche comunicazionale. È proprio tra le parole colte con difficoltà nel caos, tra delle sorte di cabine di traduzione, che trapela invero il tarlo della modernità: lo spadroneggiamento del virtuale sul reale. “Mio figlio, che mai prima ha toccato un'arma a elastico, farà esperienza di una fionda prima nel virtuale”, confessano a turno nelle diverse lingue i protagonisti sulla scena, parlando del giochino “Angry Birds”. Quasi a suggerire che forse oggi si è più intenti a vivere nella rappresentazione che ci viene data del mondo piuttosto che nel mondo stesso, perché più soddisfacente nel ventaglio illimitato di possibilità offerte. Cosa ciò comporti in termini di consapevolezza, opportunità e infine di libertà lo stiamo stiamo già scoprendo.
Ultimo schiaffo al sovvertimento di un inesistente ordine è sferrato da Spregelburd negli uffici preposti all'ordine stesso, in una sede qualunque della burocrazia, dove l'utilità di snervanti procedure si perde nell'assurdità di quest'ultime, nella catena di montaggio che conduce al timbro finale di una pratica. Qui, l'ossessione di un dipendente a “fare spazio” si trasforma in una riflessione sulla tendenza naturale dell'uomo al riciclo, al piacere provato nell'acquisto e nel successivo scarto, che conduce come esito ultimo alla perdita di senso dello stesso denaro, bruciando il quale – e non nel senso metaforico - il punto di non ritorno verso la fine di ogni convenzione di significato è definitivamente sancito.
Facendo leva sulle ironiche “catastrofi” del nostro tempo, Rafael Spregelburd porta alle streme conseguenze una realtà amplificata nei suoi no-sense, cercando di mostrarne le pieghe imprevedibili che spesso la connotano. Attraverso voli (neanche troppo) pindarici, è l'assurdo a giustificare l'attuale insensatezza moderna, derivata non tanto dal superamento quanto dall'annullamento di ogni concorde categoria, mito o unità di misura.
Eppure, nonostante il gran lavoro degli interpreti, l'impressione avvertita è talvolta quella di un ripiegamento del dramma su se stesso, chiuso nella dimensione di una dialettica paradossale, scrupolosamente raffinata ma a tratti estromissiva per il pubblico, come se il circuito per la trasmissione del messaggio fosse in certi punti improvvisamente saltato e l'elemento di detonazione ricercato non fosse totalmente in grado di raggiungere il suo fine potenzialmente esplosivo. Quell'eplosione di consapevolezza di una realtà per natura illogica, in cui il germe del relativismo assoluto ha definitivamente attecchitto ed è pronto a  imperare con la furia distruttiva di una pandemia d'aviaria.