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Ha esordito martedì 14 al teatro della Corte di Genova, compagnia ospite dello Stabile, questa drammaturgia, forse tra le meno note, di Federico Garcìa Lorca, nella versione italiana di Elena Clementelli, e resterà in cartellone fino al prossimo 21 dicembre. Affidata alla regia di Lluìs Pasqual, che ne ha curato anche l'adattamento, è una produzione del Piccolo Teatro di Milano e vede in effetti impegnati alcuni tra i più apprezzati protagonisti, e da tempo, della scena milanese a cominciare da Andrea Jonasson che, come dire, si sperimenta nel ruolo della 'nubile' Rosita. Al suo fianco una 'intrigante' Giulia Lazzarini, la governante ed una intensa Franca Nuti, la zia della protagonista. Una citazione personale merita poi il bravo Giancarlo Dettori, lo svagato ed etereamente romantico zio, oltre a Rosalina Neri ironica e convincente interprete della madre delle 'tre' zitelle. Roteano intorno a loro, e spesso non solo metaforicamente ma con il ritmo delle danze di Andalusia, una compagnia di giovani attori e, soprattutto, attrici che non citiamo, e ce ne spiace, solo per questioni di spazio. Completano l'ensemble italo-iberico Enzo Frigerio, per le scene, Franca Squarciapino, per i costumi veramente belli, Josep Maria Arrizabalaga, per le musiche, Montserrat Colomè Pujol, per i movimenti coreografici ed, infine, Claudio De Pace per le luci. Poema, più che dramma, sulla caducità e sulla caducità dei fiori, il loro appunto inevitabile 'sfiorire, si percepisce avere nei fiori, soprattutto nella fascinosa 'rosa mutabilis', vera summa di questa caducità, i suoi veri protagonisti, di fronte ai quali i protagonisti 'umani' sono una sorta di trascrizione scenica in forma di drammatizzazione che si articola in una fabula in sé semplice ed eternamente rinnovata, perchè, come scrive il regista nel foglio di sala <<allo scorrere del tempo tocca il ruolo di protagonista di questa commedia e, quando il tempo è protagonista, è della vita che si parla.>> Rosita, giovane andalusa adottata dagli zii, si innamora del cugino (non ha nome in commedia ed è questo di per sé sintomatico) che però, richiamato dal padre, parte per l'Argentina e lì si sposa continuando però, per viltà, ad ingannare la fidanzata abbandonata. Così Rosita passa il suo tempo nell'attesa e sfiorisce, e questo sfiorire nel tempo diventa per lei 'identità' così profonda che, anche quando apprende del matrimonio, continua a fingere forse ignorando che tutti sanno, e sostengono solo per compassione quella stessa finzione. La verità si scioglie solo all'ultima scena, quando, ormai in miseria dopo la morte dello zio, Rosita, la zia e la governante abbandonano la casa avita e le sue serre ormai spente. Pare di leggere dunque, in sottotraccia o sottotrama, una spinta lirica intensa che mal si cura di ogni sviluppo drammaturgico, abbandonato quasi alle necessità sintattiche di risoluzione della fabula, e che al contrario si dispiega con intensità nella musica delle parole d'amore e di attesa, o nel canto di una vitalità inutilizzata che si spegne ovvero nella danza che lo accompagna. Tale spinta, nella rivisitazione drammaturgica di Pasqual, talora emerge prepotente ma talora si perde anche per qualche occasionale incertezza registica che per rispettare canoni di rappresentabilità ed esigenze, per così dire, di comprensibilità della trama drammatica, rischia di sacrificarla un po' in secondo piano. Certamente la forza della recitazione attenua queste occasionali incertezze e restituisce amalga alla drammaturgia superando quella sensazione di disarticolazione del racconto che sembra costringere ogni personaggio verso una sorta di monologo più lirico, appunto, che drammatico. Lo spettacolo è dunque nel complesso gradevole e offre spunti di appropriata ed intensa presenza scenica in Rosita e nelle schermaglie tra zia e governante, ed i suoi limiti sono forse più da ascrivere alla difficoltà di padroneggiare la tensione lirica del testo, tensione che peraltro ne costituisce anche il fascino centrale. Una prima premiata da un pubblico numeroso e prodigo di applausi.