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Una testimonianza per affermare il valore della memoria, a settant'anni  dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, il 27 gennaio 1945. E' questo il senso della messa in scena de Il processo di Shamgorod di Elie Wiesel, premio Nobel 1986, alla Casa dell culture di Roma  fino al 1° marzo 2015.
Uno spettacolo onesto in cui ci si addentra in questa vicenda di persecuzioni razziali ambientata nell'Europa orientale del XVII secolo, assumendo lo sguardo moderno dell'autore sopravvissuto all'olocausto.
La vicenda è nota e funziona come buona occasione per rinnovare la domanda sul senso ultimo della teodicea, sul rapporto tra Dio e il male, tra Dio e gli uomini, tra uomo e uomo.
E la risposta arriva dopo un processo a Dio in contumacia, sempre rinviato. procrastinato, fino all'arrivo di una misteriosa figura che si proporrà come avvocato difensore: colui, scrive Wiesel, che "ha il diritto di mentire".
A Dio infatti mancava la difesa, che si palesa in ultima istanza sotto forma di avventore: un essere perturbante, già visto ma non precisamente identificato, se non da una donna, Maria, unica cristiana tra i presenti. Si chiama Sam, come Samuele, l'angelo ribelle che nella tradizione ebraica viene anche chiamato l'angelo della morte, compromesso con il male e il demonio. Ed è a lui che spetta la difesa di Dio.
Ecco, in questo paradosso sta il senso della lettura di Wiesel, che è l'impossibilità dell'assoluzione di Dio. 
Il pensiero dell'autore viene incarnato (e esasperato nei colori e nel carattere) dal personaggio di un burbero taverniere che tratta male i clienti e impreca contro "la crudeltà di Dio che concede agli assassini la forza e alle vittime lascia le lacrime". Berisch è sopravvissuto insieme alla figlia Hanna e alla serva Maria al pogrom che ha sterminato l'intero villaggio di Shamgorod, e ne sconta le conseguenze nello  svilimento del  suo rapporto con Dio e con gli uomini. Un rapporto dannato, senza speranza né pace che non trova e non cerca consolazione. 
Il processo a Dio, in cui si riserva la parte del procuratore, "un uomo gentile che ha il diritto di essere cattivo", è per lui l'unica risposta possibile ai tre attori venuti al villaggio per celebrare e rappresentare la festa del Purim cioè la festa dei folli, il carnevale degli ebrei, con tanto di maschere, chiatarra e tamburelli.
Ma prima del processo ci sono le testimonianze, le rivelazioni, le rese dei conti di quanto è stato e di quanto si era finora taciuto. Ed emergono i conflitti, le differenze, i caratteri, il rapporto tra giustizia umana e giustizia divina, le diverse possibilità di rapportarsi a Dio. Con timore o con paura,  come avviene nella dialettica tra Berisch e uno dei tre attori, che rappresenta l'indulgenza,  il perdono possibile anche laddove non si riesce a comprendere. Nel ruolo Romano Talevi, il più convincente di tutti, in un buon cast complessivo composto da  Mario Palmieri, anche regista, Pierfrancesco Ceccanei, Patrizio Cigliano, Simone Faucci, Giorgia Palmucci, Rita Pasqualoni. Opportune e essenziali le scene di Eugenio Piscopello, che evocano con due o tre tavolacci le vecchie taverne illuminate da qualche fioca lanterna e giusti anche i costumi di Chiara Buggiani, con un bel rosso di contrasto, che prevedono anche l'utilizzo di maschere. Un ottimo servizio è reso dalle luci, oleografiche, di Roberto De Leon, capaci di ricreare atmosfere e situazioni.

IL PROCESSO DI SHAMGOROD
di Elie Wiesel
Casa delle Culture, fino al 1° marzo
Regia Mario Palmieri
con Pierfrancesco Ceccanei, Patrizio Cigliano, Simone Faucci, Mario Palmieri Giorgia Palmucci, Rita Pasqualoni.
Scene Eugenio Piscopello
Luci Roberto De Leon
Costumi e maschere Chiara Buggiani