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"Cosa succede intorno a una persona nel momento in cui la sua mente decide di partire?". E' anche per rispondere a questa domanda che Fabrizio Gatti decise di  diventare Bilal, da giornalista italiano in abiti borghesi a emigrato curdo coperto di stracci. E' successo una decina di anni fa e la sua testimonianza è un libro pubblicato nel 2007 da Rizzoli,  Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini.
Lo conoscono in molti e per fortuna se n'è molto parlato. La sua condivisione simbiotica con la quotidianità e con il destino dei migranti accatastati nei camion in mezzo al Sahara, dove Gatti ha sofferto come tutti la fame e la sete, dove si è ammalato ed è stato derubato, e la sua cattività in quei nuovi lager che sono i centri di permanenza temporanea, è arrivata a molti di noi grazie al suo libro e alla risonanza mediatica che ha portato con sé. 
Ora è stata realizzata una versione per la scena con Leonardo Capuano, in seno a un progetto che ha visto la collaborazione tra la regista  Annalisa Bianco di Egumteatro  e Luca Fusi, regista e attore italiano direttore degli studi dell'Ecole de Théatre di Ouagadougou in Burkina Faso.
Bilal nessun viaggiatore è straniero, appena andato in scena al teatro India di Roma, è un monologo di settantacinque minuti in cui Capuano dà corpo e voce al narratore-giornalista  ma anche agli altri migranti, ai poliziotti feroci e ladri, che ti prelevano il denaro e le scarpe, agli autisti di 'taxi collettivi' pagati in anticipo che non arrivano mai a destinazione lasciandoti solo in mezzo al  deserto.
Si comincia con una sovrapposizione di voci fuori campo in cui si definisce la volontà dell'autore: scoprire cosa c'è nella rotta per l'Europa di più spaventoso della morte in mare.
E si procede con una narrazione vissuta, agita attraverso il racconto che si vale di una notevole messa in gioco di energie, di gesti, di azioni. Si racconta di partenze interdette, di posti di controllo che equivalgono a altrettante rapine da parte dei controllori, e si vede la polvere densa del deserto, "così densa da coprire le stelle".  Si intuiscono le luci di case lontane che si vedono dall'alto dei camion ma che spariscono non appena ci si ritrova abbandonati allo stesso livello della strada, per diventare completamente invisibili con la luce del giorno. Ci sono momenti di   lirismo persino spiazzante che vira in immagini crude, violente, fino a farti sentire il fetore dei gabinetti intasati dei CPT.
Quello che invece è meno credibile, a tratti persino irritante, è lo spaccato in cui si inscena il dietro le quinte di un programma tv, uno dei tanti, anche  se una 'gabbia' si sente nominare: un parrucchino grottesco, e quell'accento così  affettato non occorrevano, la realtà che conosciamo è più che sufficiente, e fare il verso al grottesco con il grottesco produce un paradossale effetto tautologia.
Meno male che alla fine ritorna Bilal con la sua povera coperta sulle spalle, per consegnarci il testimone. E' duro da raccogliere, quanto è vero che "la più grande menzogna è far credere che tutto questo si possa cambiare con le parole".

BILAL NESSUN VIAGGIATORE E' STRANIERO
dal libro di Fabrizio Gatti Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini
con Leonardo Capuano
regia Annalisa Bianco

Foto Christian De Santi