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Un testo drammaturgico che si apre con un abbozzo di un’ulteriore drammaturgia, di cui non si accorge nessuno, o in pochi. Ma in realtà il teatro nel teatro è presente continuamente, il racconto è di per sé metateatrale, la finzione di entrambi i personaggi è  ulteriormente teatrale.

L’autore di EMIGRANTI, testo che è stato tradotto in italiano, poi trasformato in messinscena dal regista Lucio Allocca, viene ulteriormente tradotto scenicamente, attivamente e linguisticamente, da due giovani attori, Fulvio Sacco ed Andrea Avagliano. Ma ritornando a monte, cioè all’autore polacco, Slawomir Mrozek,  egli scrive il testo nel 1974, e in parte racconta la sua vicenda personale di emigrato nella dura Parigi. Questa città compare in due degli spettacoli visti durante questa settimana, a Napoli, e in entrambi ritroviamo il tema dello  “sradicamento”, qui descritto, però, attraverso l’assoluta staticità. Quindi biografia drammaturgica che riporta in scena due personaggi senza nome, AA, XX, ricordando naturalmente il Teatro dell’Assurdo; due uomini che, all’inizio del loro racconto, inseriscono un ulteriore raccontino, inventato e ambientato alla stazione. Il botta e risposta dei due sembra quello tra regista e attore, tra autore e personaggio, delineandosi attraverso immaginarie didascalie narrative.  Discorso contorto per risalire alle origini del testo, di difficile reperimento perché non ripubblicato, ma fortunatamente, in questo contesto, recuperato. Lucio Allocca lavora sul testo da profondo conoscitore di Mrozek, ma soprattutto punta alla scena grazie al perfetto connubio tra i due attori, che rendono scenicamente i due personaggi non identificati, così come gli originali, ma qui caratterizzati,  stavolta, linguisticamente. Il dialetto non è propriamente definito, bensì si tratta di un italiano regionale, con influssi dialettali, a metà tra napoletano, pugliese e lucano. Questo permette non solo di non identificare univocamente la provenienza ma di collocare e spostare il “set” dalla Parigi descritta dall’autore polacco, al Nord in cui si riversano gli emigrati italiani provenienti dal Meridione della nostra penisola. Al di là del racconto banale sul dolore dell’emigrazione interna italiana, che diventerebbe luogo comune, è interessante comprendere, invece, come nulla di questa banalità possa trapelare da un testo non italiano, considerandolo come testimonianza universale degli Sradicati di tutto il mondo. Lo spettacolo EMIGRANTI, che riporta il titolo del testo di Mrozek, dopo vicissitudini legate ai diritti d’autore (Mrozek muore nel 2013), debutta sul palcoscenico del Teatro de Poche di Napoli, dal 20 al 22 febbraio, con la sorpresa di ulteriori repliche anche dal 27 al 28 febbraio, e poi successivamente in altre location a marzo, visto il successo di pubblico. Il lavoro ci incuriosisce e decidiamo di intervistare i due attori. La curiosità nasce non solo dalla visione dello spettacolo, ma dalla profonda osmosi emersa tra i due personaggi e soprattutto tra i due giovani attori in scena. Ciò che sorprende ancora di più è sapere che i due lavorano per la prima volta, fianco a fianco. Questo ci fa capire che il lavoro sul testo e sulla scena, quotidiano e in presenza, è fondamentale. Due attori differenti, con formazioni differenti, sembrano incarnare perfettamente i due protagonisti. Il Teatro de Poche, poi, con il suo palco cavernoso, sotto le viscere della città di Napoli, rispecchia perfettamente l’ambientazione voluta dall’autore: un sottoscala. Le mura nere, i tubi degli scarichi ( veri!), il gocciolare incessante in sottofondo, il tremolio del pavimento mentre la vera metropolitana scorre sotto gli spettatori. La scena, connotata dal grigiume, dalle tonalità del beige e del marrone, non spicca mai visivamente. Le vignette e i disegni, tratti dalla vera arte di Mrozek, vengono riprodotti sulla scena, sugli abiti degli attori, sulle cravatte, attraverso il lavoro scenografico di Alessandro Mauro e i costumi di Anna Verde. Due fumetti simbolo di una società, due macchiette che rappresentano la stessa faccia di una stessa medaglia, come sottolineano gli stessi attori, durante la nostra conversazione. L’uno contadino del Sud, venuto al Nord per raccogliere la “grana” e costruire una casa per la moglie e i figli, l’altro intellettuale venuto dal Sud, due matrimoni falliti alla spalle, senza figli, musicista e sognatore, crede nell’utopia della liberazione dalla schiavitù dei padroni e dal Dio denaro, nonostante rimanga inerme a casa. Entrambi sembrano credere in qualcosa, e al di là di uno scopo collocato nel futuro, in realtà non ritrovano nulla. Il loro colore, il loro grigiume, il loro girare in tondo sulle stesse questioni, connotano una situazione di staticità che è simbolica. Non solo, quindi, la staticità di prospettive,  ma anche  l’immobilità fisica: l’intero spettacolo si svolge in un sottoscala serrato,  dove i rumori del mondo esterno, che si muove e vive, arrivano attraverso i suoni, le voci, le sirene, provenienti dal mondo superiore, amplificati e trasmessi attraverso i tubi delle fognature. Topi in trappola che osservano il mondo dal basso verso l’alto, anche quando escono dal tugurio per lavorare, come schiavi, nei cantieri delle fogne di città, sotto le grate dei marciapiedi. Animali intrappolati dai tempi, dalla società, dalla crisi e dall’utopia di ciò che sarà ma non avverrà mai. L’attesa e l’oscurità, la luce che diventa candela, il tremore e la malattia del lavoratore beffardo, nell’ottima interpretazione di Fulvio Sacco, comico e dolente insieme, fino al profondo nichilismo dell’altro personaggio, nei panni teneri e malinconici di Andrea Avagliano, che cerca di salvarsi ingurgitando l’ottimismo schietto e popolare dell’altro,  distruggendo per non sfuggire e non far fuggire. Una notte di Capodanno dove tutto potrebbe rinascere ed invece manca la luce: niente cambia, nulla si trasforma. Lo sparagmòs delle tragedie greche, il culmine, si raggiunge anche in questa dolente storia ma non supera mi il limite estremo. La circolarità e la fissità sono proprio gli elementi che mantengono in vita i due esempi umani della società. Impossibile slegare i due personaggi, e soprattutto i due attori, da un legame indissolubile che li completa a vicenda. Infantilismo e dolore si mescolano in un testo e in una performance leggera ma che colpisce profondamente il pubblico, attraverso le musiche dal vivo che lo stesso Avagliano, pianista oltre che attore, suona, trasformando, così, l’originario scrittore in musicista filosofo. Gli spettatori ridono, esclamano, commentano ai colpi di scena, applaudono, pur in un rigoroso silenzio. Sembra che ascoltino il racconto di due amici, ritornati dopo un lungo periodo di “sradicamento”. La finzione del racconto di cui entrambi i personaggi si vestono, è profondamente teatrale: la sopravvivenza allo sradicamento è legata all’invenzione, creando racconti nel racconto, di cui il pubblico non conoscerà mai la veridicità.  Racconti di una vita passata, presente e futura. E qualora uno dei due andasse via, minacciandolo ripetutamente, il discorso si frantumerebbe e diventerebbe banale. È proprio l’imperterrita attesa che mantiene in vita i due. Ci nel portare avanti, così intensamente, l’immagine di un personaggio bifronte così vicino a tutti noi.

Foto di Emilia Sagitto

EMIGRANTI
Teatro de Poche Napoli
20-22 febbraio 2015
27-28 febbraio 2015
"Emigranti"
di Slawomir Mrozek
Con Andrea Avagliano, Fulvio Sacco
Scene di Alessandro Mauro
Costumi di Anna Verde
Musiche e suoni di M° Clelia Vitaliano, Alessandro del Sole
Regia di Lucio Allocca