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Il teatro è uno stato permanente del vedere e del sentire, ma paradossalmente lo spettacolo teatrale è invece un evento contingente che della contingenza, dell’essere nel qui e nell’ora del suo svolgersi, fa la forza trainante della sua capacità di conoscere e far conoscere l’eterno, cioè ciò che permane oltre la sua fine.
In questo paradosso, in questa contraddizione credo possa iscriversi il valore profondo dell’arte di Luca Ronconi, morto a Milano, sua ultima patria, il 21 febbraio scorso.
Nato in Tunisia nel 1933 e presto in Italia con la madre, entra nel mondo del teatro come attore, mestiere che peraltro non amava molto, per poi trovare a metà degli anni sessanta la sua più giusta vocazione, quella di regista quasi a riprendere le fila della rivoluzione che nel dopoguerra la generazione appena precedente aveva avviato, a Milano e Genova soprattutto.
Il 1966 è l’esordio con “I lunatici” di Middleton e Rowley, ma è nel 1968 la consacrazione anche internazionale con quel “Orlando Furioso” travestito da Edoardo Sanguineti che costituisce una vera e profonda trasformazione dei codici della regia, trasformazione con cui non si potrà poi fare a meno di confrontarsi.
D’altronde la cifra di tale trasformazione è innanzitutto iscritta nella elaborazione del poeta genovese che attraverso la destrutturazione del testo classico, conservato nella sua più piena autenticità, ricostruisce e ricompone una struttura, anziché verticale, come nella narrazione letteraria, orizzontale, propria della narrazione drammaturgica, “in base ad una disposizione paritaria, non privilegiata, dei frammenti su una superficie”.
Merito di Ronconi, cui il travestimento fu programmaticamente destinato, avere intuito e accolto le grandi potenzialità sceniche di tale disposizione paritaria, che nella contemporaneità degli eventi scenici consentiva la costruzione autonoma dello spettacolo attraverso la compenetrazione reciproca delle suggestioni del pubblico e della regia. In effetti Sanguineti, è noto, non condivise la scelta di Ronconi che nella trasposizione televisiva tale contemporaneità, anche per motivi organizzativi, dovette eliminare.
Da allora una lunghissima serie di regie fino all’ultima, in scena quest’anno, tutte di grande spessore, che hanno incistato per così dire la storia più recente del teatro italiano ed europeo, e tutte forse che quella cifra elaboravano in uno sforzo di dilatazione degli spazi e dei tempi della messa in scena che del teatro sembrava voler recuperare la permanenza, oltre gli stili e le sintassi che andavano intorno a lui evolvendosi.
Passato alla cronaca e anche alla storia come il regista delle “grandi macchine” sceniche, spesso fonte di polemiche per i costi produttivi, sembrava cercare attraverso quelle di smascherare il più intimo meccanismo teatrale, all’interno del quale anche la valenza e la sapienza attoriale poteva subire una inconsapevole ma proficua metamorfosi.
Ora la sua ricerca, come la sua vita, si è fermata, la luce si è spenta. Mancherà, ma faremo affidamento alla nostra memoria, aiutati dai documenti man mano accumulati, perché la vita irriproducibile dei suoi spettacoli possa essere, almeno in parte, richiamata.