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Vacis – Tarasco – Tramacere - Cantieri Teatrali Koreja. Non potevamo mancare. Visitare, seppur di sfuggita, i cantieri Koreja, a Lecce, a settembre scorso, in occasione delle interviste ad Eugenio Barba, e poi vederne un prodotto su un palcoscenico napoletano, è emozionante. I Cantieri Koreja, Teatro Stabile di Innovazione del Salento, si aprivano inaspettati davanti ai nostri occhi, attraverso eleganti spazi in cui si respira non solo arte, ma grandissima serietà e disciplina. Un luogo magico che, come accennato a settembre, rischiava di decadere, insieme a tante altre Istituzioni teatrali italiane. 
Gabriele Vacis presenta LA PAROLA PADRE. In scena sei giovani donne sul palcoscenico del Teatro Nuovo di Napoli, dal 25 febbraio al 1 marzo. Ci aspettavamo un discorso sul conflitto tra padri e figli, ormai comune negli scritti drammaturgici contemporanei, ma in realtà ci ritroviamo davanti la Storia europea degli ultimi trent’anni e gli effetti che essa ha riversato sulla nostra contemporaneità.
È difficile descrivere questa tipologia di spettacolo, che mescola metateatro, canto, ballo, interpretazione corporea, testo teatrale, conversazione con il pubblico, autobiografia, ricordi, Storia. È ancor più complesso parlarne quando ci si accorge che il pubblico, inizialmente distratto, poi si commuove. E a commuoversi sono soprattutto alcune donne non più giovani: lacrimoni, tirate di naso, fazzoletti. Incomprensibile. O meglio emozionante. Questo spettacolo mette i brividi,  provoca la pelle d’oca, emoziona, innervosisce. Ha una struttura inesistente, se si considera la tradizione drammaturgica a cui siamo abituati; piuttosto bisognerebbe definirlo “documentario teatrale sulla nostra società”. È un resoconto duro, canzonatorio, descritto dal punto di vista della donna, della figlia, non solo di quella “familiare”, ma della figlia “cittadina”, attraverso un’analisi del concetto di nazionalismo, ma soprattutto di appartenenza, che è profondamente doloroso. La figlia di una Patria è simbolo di progenie e crescita: la figlia di questa duplice famiglia, nel microcosmo e nel macrocosmo, viene violentata. Il padre dimentica, abbandona, permette violenza, distrugge. L’idea dei padri che uccidono i figli incombe violentemente sul teatro italiano, da mesi, da qualche anno. L’appartenenza è definita anche attraverso la lingua: le sei donne, tre italiane, una bulgara, una macedone e una polacca, iniziano il loro discorso attraverso le loro lingue di origine, simultaneamente tradotte e recitate anche in inglese. Pronunciano la parola “padre” diversamente, dimostrando affetto e tenerezza filiale. Poi il disastro. I racconti di ognuna di loro partono da una profonda intimità, proiettata attraverso uno schermo che descrive foto personali, momenti intimi, festeggiamenti in famiglia, foto ingiallite, lettere e canzoni dell’infanzia. Il contrasto tra questi racconti, le foto reali, le voci di queste giovani donne, le simbologie delle loro vite, è doloroso, sanguinolento e drammatico, soprattutto perché sovrapposto alle immagini delle dittature e delle guerre che hanno insanguinato l’Europa dell’Est, negli ultimi trent’anni. E se le donne italiane ed occidentali sono ferite dai loro padri, nell’intimo e nel corpo, le donne dell’Est hanno amato profondamente ed ostinatamente i Padri della loro Patria, ottenendo, in cambio, lo sradicamento doloroso della loro etnia. È commovente e straniante ripercorrere questi momenti che, da un lato colpiscono l’intimità e i ricordi privati degli spettatori, dall’altro ci fanno comprendere quanto la Storia europea più recente sia ormai talmente sedimentata nella memoria, da poter già analizzarne gli effetti: la creazione di una progenie “lacerata”. La parola “padre”, dunque, è uguale per tutti, e per tutte, perché se un tempo risuonava come simbolo di protezione, oggi questi figlie subiscono uno sradicamento profondo: risultato di padri nocivi e fagocitanti, ma anche di madri invisibili. L’immagine del legame edipico tra padre e figlia è frantumata, sfilacciata, poiché non si hanno  più riferimenti solidi. Queste donne sembrano vagare in preda ad un dolore storico. La scenografia è geniale: taniche di acqua trasparenti ergono un muro. Il ricordo va subito all’immagine del muro di Berlino, mentre sul video scorrono le stelline della Comunità Europea. Una satira dolorosa che spinge ossessivamente queste donne a ricostruire il muro trasparente, ma poco solido, per poi distruggerlo, gettandosi in mezzo alle taniche, sfondando il dolore del proprio animo, proprio nel momento in cui il loro racconto vomita la verità. Si ostinano a salirci sopra e a cadere, sorrette dalle altre donne, proprio perché i padri non rappresentano più il sostegno; si illudono di infilare stivali protettivi ma in realtà essi fanno acqua da tutte le parti. Esplodono in pianti profondi - a tratti di lacrime vere che rigano di Rimmel i volti delle attrici -, si vestono di maschere e panni della propria vita, appesi ai bordi del palcoscenico, come un grande camerino della più grande mascherata del mondo. Non  parliamo di femminismo, ma di dolore generazionale: fratelli, consanguinei e non, morti. Perché un pubblico che  inizialmente non appare coinvolto, poi piange? Questa tipologia di spettacolo è caratterizzata da pura simbologia scenica, attraverso cui le parole drammaturgiche si fondono necessariamente. Questo tipo di spettacolo stimola continuamente lo spettatore, visivamente e psicologicamente.  Scava a fondo, come un tarlo, man mano che il ritmo della performance avanza, alternando momenti di stasi – che spesso sembrano rallentare eccessivamente il ritmo, ma sono necessari sia per spingere la reazione a livelli sempre più alti, sia per far riprendere fiato alle attrici –  fino ad accelerazioni disumane. L’interpretazione di queste sei donne è straordinaria, profondamente viscerale e coinvolgente, fatta di sguardi complici, di sorrisi sinceri, di sostegno anche sul palcoscenico, di emozioni liberatorie portate allo spasimo, tanto che  il loro trasporto ci ha fatto temere, in alcuni momenti, per la loro incolumità. Sapranno queste donne, un giorno, procreare ancora, affinché i loro figli riconoscano la parola “padre”?

Foto Francesca Lo Prieno

Teatro Nuovo Napoli
25 febbraio- 1 marzo 2015
Cantieri Teatrali Koreja
Teatro Stabile d’Innovazione del Salento
presenta
La parola Padre
drammaturgia e regia Gabriele Vacis
scenofonia e allestimento Roberto Tarasco
coordinamento artistico Salvatore Tramacere
con
Irina Andreeva (Bulgaria), Alessandra Crocco (Italia), Aleksandra Gronowska (Polonia), Anna Chiara Ingrosso (Italia), Maria Rosaria Ponzetta (Italia),
Simona Spirovska (Macedonia)
assistente alla regia Carlo Durante
training Barbara Bonriposi
tecnico Mario Daniele, Klaidi Kulja