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Tutto è cominciato con un’immagine forte, una di quelle che si imprimono nella mente per il loro valore generale, sintetico dello spirito di un popolo colto in una precisa contingenza storica.  La descrive lo scrittore greco Petros Markaris (“L’esattore”, Bompiani 2011), che racconta di quattro donne trovate morte in un appartamento di Atene, nel pieno della crisi economica che attanaglia il paese. Accanto a loro un biglietto: “Abbiamo capito che siamo di peso allo Stato, ai medici, ai farmacisti e a tutta la società. Quindi ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni. Risparmierete sulle nostre pensioni e vivrete meglio”.
Daria Deflorian e  Antonio Tagliarini costruiscono attorno a questa suggestione narrativa un pezzo di teatro notevolissimo, Premio UBU 2014 come “Novità italiana e ricerca drammaturgica”, in scena al Tetro Filodrammatici di Milano fino all’8 marzo 2015. Sul palco gli stessi Deflorian e Tagliarini, con Monica Piseddu e Valentino Villa, costruiscono un gioco di sguardi e silenzi, parole grottesche e sarcastiche. Il testo funziona con la sua disarmante semplicità, i dialoghi sono ridotti all’osso come a voler lasciar parlare un sottotesto: la disperazione più nera. Eppure non si piange ma si ride (ecco la genialità), tutto si riveste della dissacrante leggerezza del non-detto che pare avvalorare ciò che accade nella realtà. Ogni cosa e persona si rivestono (fisicamente) di un velo nero, il manto dell’incomunicabilità, dell’indifferenza, di chi preferisce sparire. Della morte.
Gli attori recitano contemporaneamente se stessi e i personaggi del testo, come a improvvisare un gioco di squadra apparentemente naif tra realtà e finzione. In realtà il gioco corale è attento e calibrato, surreale e tagliente, penetrante come mille parole non sanno fare.
E’ la vera essenza del teatro, dire e agire quanto basta e forse meno, comunicare un condensato di significati, come stratificati in una rete di profonde diramazioni che la sensibilità dello spettatore sente germogliare pian piano.
Il vuoto domina attorno agli attori, tanta lentezza, gesti cauti ed essenziali. Di fronte a certo sbraitare del teatro odierno campeggia questo silenzio rarefatto, misurato e affilato nelle parole che cadono come macigni nel loro “non significato”. Tutto ciò costituisce un raffinatissimi gioco teatrale che non appare frequentemente sui nostri palcoscenici.

Foto Claudia Pajewski