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Un urlo straziante. Gli spettatori vengono “risucchiati” da una luce accecante, un faro rivolto alla platea e al piccolo corridoio che introduce allo spazio scenico del teatro Elicantropo di Napoli. Ha inizio lo spettacolo. Una luce pulsante, un rumore sordo che rimbomba nelle nostre orecchie, il ritmo cardiaco. La donna trascinata in scena dall’uomo, forse un medico, sembra essere un residuo umano di un manicomio d’altri tempi.
La costruzione di questo spettacolo è multiforme. Da un lato il testo, pungente e doloroso, come gli aghi delle siringhe di cui si parlerà nel corso della messinscena, dall’altro l’allestimento che stimola continuamente la vista e l’udito. Tema centrale è la malattia, che viene descritta attraverso una dolorosa interpretazione, profondamente corporea. In scena a Napoli, dal 12 al 15 marzo, Margherita Ortolani, autrice e attrice di PREGHIERA. UN ATTO OSCENO, e Vito Bartucca, regia di Giuseppe Isgrò. Una gabbia, un uccello ferito, le cui penne-carne vengono lacerate, strappate, scarnificate. Ancora una volta il dolore dell’umanità intera ritorna in scena, ed ancora una volta attraverso la voce e il corpo della donna. Colei che genera vita diventa invece, nella nostra contemporaneità drammaturgica, portatrice del messaggio di distruzione, di decadenza e di degrado, o meglio, è contenitore negativo che aspira alla sopravvivenza.
L’urlo è simbolo di nascita e di morte, ma è anche simbolo della volontà di rinascita, della reazione al dolore. Quel dolore provocato dalla malattia che, all’interno di questo testo, percorre un’evoluzione degenerativa. L’approccio iniziale sembra rappresentare uno stupro, ma niente di tutto quello che sarà descritto, soprattutto scientificamente, confluirà in un dolore unicamente fisico.  È pur vero che il dolore genera, a sua volta, la degenerazione fisica, per poi trasformarsi ancora in altro dolore amplificato. Nel corso dello spettacolo, la descrizione della malattia sembra essere quella di un carcinoma maligno: le visite, le speranze, le attese, le parole dei medici, che l’ammalato considera, poi, inutili, banali, ridicole, poiché, in fondo, il suo unico desiderio è solo quello della guarigione.  Ancora una volta la sessualità, l’atto sessuale, anche questo descritto attraverso il dolore, fisico e psicologico, diventa rinascita. La considerazione del proprio corpo, attraverso il rapporto con il sesso, qui descritto in maniera animalesca e ancestrale, sembra identificare una connessione profonda con il proprio “io”. Chi sono? Sono ancora io? Esisto ancora? Mi sento? Se la malattia fisica distrugge il corpo, quella psichica cosa comporta? È questo il nucleo fondamentale dell’intero spettacolo: la malattia del vivere. Incessante la ricerca e l’analisi su questa tematica e, purtroppo, spesso presente all’interno della drammaturgia contemporanea. La donna si presenta con la sua malattia di vivere, il suo essere costantemente integra nell’apparenza, e frantumata invece all’interno. La gravità del problema appare quando lo sgretolamente diventa visibile anche all’esterno. L’attrice-autrice sceglie di ripetere incessantemente alcune domande che qualunque parente porrebbe davanti ad una diagnosi di depressione o di malattia grave. E in effetti il dolore maggiore, la malattia peggiore, è rappresentata dalle domande e dalle preoccupazioni incessanti da parte di amici e parenti. L’assenza di coscienza di sé e del mondo circostante diventa protagonista fondamentale, un’ombra che segue e disegna i contorni della donna. L’interpretazione della palermitana Ortolani è viscerale e corporea, stilla sudore e dolore, mentre Bartucca diventa personaggio “collante” e presenza angosciosa durante l’intero spettacolo. La malattia del vivere si trasforma in dolore intenso, poi in dolore fisico, poi in gabbia mentale, fino alla ricerca di una “sensorialità” vitale attraverso il sesso. Non bastano un paio di scarpe o un bel vestito, non basta sentirsi per un giorno regina o principessa, così da indossare la coroncina, come avviene in scena, poiché ad ogni ascesa segue, prima o poi, una decadenza disastrosa, sorpattutto in questa tipologia di malessere psichico. In realtà non possiamo parlare di una ben precisa identificazione con una specifica malattia, poiché non è questo l’intento dello spettacolo. Bensì ci ritroviamo davanti ad una macroscopica osservazione dell’Individuo. Il titolo riporta il riferimento alla preghiera, ed ecco che, davanti alla malattia, l’unica soluzione o speranza appare il dialogo intrapreso con un’identità superiore. E in scena compare il feticcio, scultura metallica e marionetta manovrata dal mondo intero – immagine profondamente drammatica e cinica che caratterizza l’idea di “Dio”-  con la quale la donna cerca di intraprendere un dialogo, per conoscere il perché. Diverse le installazioni sulla scena, dalla gabbia, alla marionetta, fino alla citazione della morte di Bella, la prima moglie di Chagall, suicidatasi per depressione.
Lo spettacolo non vuole colpire emotivamente il pubblico, bensì vuole stimolare ogni senso e spingere alla riflessione: ecco quindi che sonoro, luci, immagini, tagli di luce scuotono gli spettatori, entrano pungenti nelle loro menti. La drammaturgia, però, appare avulsa dal discorso scenico, come se i due elementi fossero volutamente tenuti distanti e mai fusi.  La particolare drammaturgia viene, a tratti, “coperta” dalla ricca scelta visiva e sonora, interessante e sconvolgente in alcuni momenti, ma dilatata eccessivamente nel tempo, così da concentrare l’attenzione soprattutto sulla performance scenica, dal forte impatto sensoriale, perdendo di vista il discorso drammaturgico.

PREGHIERA. UN ATTO OSCENO
Teatro Elicantropo Napoli
10-15 marzo 2015
Phoebe Zeitgeist, Milano, e TGA, Palermo
presentano
Preghiera. Un atto osceno
di Margherita Ortolani
con Margherita Ortolani, Vito Bartucca
voci registrate Elena Russo Arman, Tito Lombardo
scena Igor ScalisiPalminteri
suono Giovanni Isgrò
costumi Vito Bartucca
disegno luci Giuseppe Isgrò
assistente alla regia Piero Consentino
dramaturg Francesca Marianna Consonni
mmagine Giuseppe Isgrò
grafica Francesca Cianniello
regia di Giuseppe Isgrò