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Va a conclusione il Festival “Focus Jelinek” che ha percorso gli spazi di una intera regione, ha cavalcato il tempo di una intera stagione, da dicembre a marzo, e ha avuto a mio avviso molti meriti. Non solo quello di aver ricondotto la, spesso scarsa, attenzione del mondo teatrale italiano

su una autrice, certo difficile, ma essenziale per capire la nostra contemporaneità nella prospettiva della storia più recente, ma anche quello di aver conquistato l’attenzione, e non era cosa facile, della scrittrice e drammaturga austriaca che ha consentito, ad artisti e pubblico, di richiamare anche recentissime novità artistiche e drammaturgiche.
Dunque a Bologna, con una coda a Montescudo in quel di Rimini, l’ultimo fine settimana, con due eventi molto interessanti.

NUVOLE.CASA.
Una lettura drammaturgica di Chiara Guidi alla Biblioteca dell’Archiginnasio. Qui la Guidi va oltre la razionalità dura e fin “ispida” dell’autrice, e della sua lingua elaborata e in fondo travestita, per accostarsi direttamente al “mistero” attorno al quale quella stessa razionalità sembra arrovellarsi e inciampare, forse perché quel mistero non accetta, ovvero non può e non vuole accettare fino in fondo. Il trasformarsi continuo, nella voce intensa e quasi plagiante di Chiara Guidi, di quelle parole stratificate in suoni significativi, che, come carotaggi in una miniera, quel mistero sondano e indagano senza mai interrogarlo, produce una sorta di metamorfosi di cui è emblematica rappresentazione la quasi inquietante trasformazione dell’adolescente in scena (il bravo Filippo Zimmermann), guidata sapientemente da quegli stessi suoni. Così questo testo narrativo, forse uno dei più metafisici della Jelinek, si espone nella scena vuota, e mostra e fa sentire il vuoto che nel profondo di quella miniera giace inascoltato e inudibile. Quel vuoto, icasticamente rappresentato dalle biblioteche, veri e propri musei della parola, si fa infine, paradossalmente, “ascoltabile”. Un testo carico di storia e della storia in fondo di un concetto, quello del germanesimo che la Jelinek percorre nella sua trasformazione impercettibile e tragica da Holderlin ad Heidegger, un concetto quasi consumato dal suo continuo essere interrogato senza risposta. Un testo dunque anche politico che richiama, ancora una volta, una intera comunità alla consapevolezza, una consapevolezza troppe volte rimandata all’indifferenza e così celata e rimossa. La traduzione è di Luigi Reitani e l’intera drammatizzazione è accompagnata dalle musiche di un bravissimo Daniele Roccato al Contrabbasso. Immaginato, dice la Guidi, come una voce che legge, anzi “dice”, alla Radio la drammatizzazione richiama così di nuovo l’idea, la tentazione in fondo, del nascondere, del seppellire per dimenticare, e la combatte ribaltandola. Vi è in questo un desiderio quasi estremo di verità, a cui talora la Jelinek mostra di continuare a pagare un prezzo assai elevato. Sapere aude ricordava Kant citando Orazio, e certamente a Elfriede Jelinek non è mai mancato il coraggio di servirsi della sua propria intelligenza.

LA REGINA DEGLI ELFI
Angela Malfitano, già brava protagonista della rinnovata messa in scena di “Faustin and Out” da me recensita, affronta invece, all’interno dell’Oratorio di San Filippo Neri, un testo più direttamente politico. Un monologo questo, nella traduzione di Roberta Cortese, che mescola con particolare efficacia diversi livelli e piani dell’esercizio del “potere” e le loro interferenze reciproche, capaci, anziché di depotenziarlo, di moltiplicarne ed enfatizzarne la presa efficace.  Protagonista è Paula Wessely, grande attrice austrica, raffigurata, nel principiare di una sorta di percorso a ritroso, post-mortem quando la comunità teatrale viennese le dedica la cerimonia d’onore dei “Burgschauspieler” (tre giri della bara intorno al teatro Nazionale). Ma la Wessely, che ha attraversato la storia e il teatro austrica del novecento aderendo anche senza pentimento alla propaganda del nazismo, non è per la Jelinek solo una grande attrice, una esistenza, ma è soprattutto un segno, anzi un plurimo e ambiguo segnale. Innanzitutto del potere di manipolazione del teatro che si sovrappone al potere della politica, entrambi in fondo votati alla finzione (di “te fabula narratur” potrebbe ciascuno di noi dirsi), ma soprattutto, della incapacità di contrapporre a tale potere sovrapposto e sovradimensionato la coscienza e la consapevolezza dei suoi possibili esiti nefasti. Torna in questa figura l’oscurità del nazismo e torna il facile oblio, il non aver fatto i conti con sé stessi, di una donna, di una comunità artistica, di un popolo. La Jelinek usa il linguaggio del potere per smascherarlo e per smascherare l’inconsapevolezza, facile e pericolosa, della sua Austria, capace per questo di produrre ancora mostri. Angela Malfitano affronta dunque il testo assecondandolo, nel suo stratificarsi e confliggere già dal suo interno, e per meglio impadronirsene lo squaderna in scena nella sua essenziale oggettività. Entra così inginocchiata nella bara mentre questa compie i tre giri d’onore in una peripezia nascosta però nel cavo del palcoscenico, infernale recesso rivendicato di continuo affinché ciò che è stato sia banalizzato e coperto dall’oblio. Le parole però creano spazi e costruiscono dimensioni contraddittorie, spiraglio piccolo ma insperato alla coscienza. Una resa essenziale che enfatizza i movimenti di senso celati nella articolata sintassi monologante mentre l’immagine della morte sovrasta i fasti del potere della scena e del potere tout court. Solo la consapevolezza che così deriva dalla fine della “Storia” sembra poter rivendicare il suo ricominciamento. Una narrazione però, soprattutto nella sua trasposizione scenica, che non sembra riguardare solo o tanto la “Storia” quanto la nostra essenziale, psicologica o esistenziale che sia, contemporaneità. Brava, ancora una volta, Angela Malfitano nella costruzione drammaturgica e nella intensa recitazione. Nella drammaturgia si è avvalsa dell’aiuto di Rossella Cabiddu, Andrea Cazzato, Anna Cei, Cecilia Lorenzetti, Agnese Troccoli e Stefano Zanasi, nonché di Alessandra Lanfranchi, Lorenzo Letizia (video), Francesco Brini (suono), Alessandra Fucillo (foto) e Paolo Falasca (tecnico).

Due spettacoli con posti tutti esauriti, molto applauditi, intensi, diversi ma entrambi irrequieti che rafforzano il segno che Focus Jelinek lascerà, credo, sulla scena italiana.