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Ottavo movimento del ciclo epico di Mark Ravenhill, per la traduzione di Pieraldo Girotto e Luca Scarlini e per la regia di Fabrizio Arcuri, nell'ambiziosa rivisitazione dell'Accademia degli Artefatti che il Teatro della Tosse di Genova ha integralmente proposto, con encomiabile sforzo che ha visto impegnate tutte le sue strutture produttive e rappresentative dal 14 al 19 dicembre

Drammaturgo inglese dell'ultima generazione, Mark Ravenhill si è imposto alla scena internazionale per il suo sguardo acuto sulla contemporaneità, rivisitata quasi come esito inevitabile di un passato talvolta privato di consapevolezza e condivisione, quasi sequestrato e trasfigurato dalle esigenze di riproduzione di un potere distante e anche, spesso, crudele. Così questo ciclo epico pare affrontare una esigenza intima di riappropriazione e di smascheramento attraverso il meticciamento, nella contemporaneità della rappresentazione, di passato e presente, di suggestioni antiche e di corrispondenze attuali in un esito in un certo senso post-contemporaneo. Il tradizionale e sempre più raffinato approccio multisegnico, più che multimediale, della Accademia degli Artefatti riesce a sviscerare efficacemente questo processo cognitivo accrescendone nel transito scenico la consapevolezza drammaturgica. Il titolo della pièce, nel contesto dell'approccio complessivo del ciclo del drammaturgo inglese incentrato sul tema della guerra come eterna attività di dominio di potenze man mano egemoni, di cui i più recenti anni della 'guerra al terrorismo' promossa dagli Stati Uniti sono insieme sintesi e metafora, smaschera e efficacemente predispone al tema della specifica drammaturgia, quella del ritorno, o meglio del desiderio 'impossibile' del ritorno ad una normalità, impossibile anche perchè quella stessa normalità si sfalda e scompare sotto i colpi di quella stessa guerra che ci ha condotto lontani. Sei soldati, in un Medio Oriente mitico ma chiaramente identificabile, si congedano dal popolo che hanno combattuto, come Achei da Troia incendiata, con goffi tentativi giustificazionisti che non riescono a coprire una sottile loro rivendicazione della giustezza di quella guerra atroce, rivendicazione necessaria in fondo per non naufragare nella follia e che si spinge ad inscenare tragicamente e grottescamente l'uccisione del tiranno occasionale. Ma il ritorno è impossibile perchè la guerra necessariamente alimenta sé stessa e si riproduce continuamente in altre guerre, ed il grido disperato degli Ulisse dispersi nei bombardamenti, si infrange nel fragore dell'ordinarietà esistenziale, della vita sull'Itaca sognata e abbandonata, che forse si alimenta di quella stessa guerra che li ha allontanati e ancora li allontana. Drammaturgia complessa e di forte impatto, multisegnica come detto e a più strati interpretativi, e dove le considerazioni storiche, politiche o sociologiche si affrancano dalla contingenza per proiettarsi in un approccio metaforico della condizione umana nell'oggi, in una sorta, peraltro, di negazione della storia e di sua ricaduta nella circolarità del sempre ripetuto. In scena Miriam Abutori, Matteo Angius, Gabriele Benedetti, Fabrizio Croci, Pieraldo Girotto, Sandra Soncini, Damir Todorovic, con i “Breakers” fratelli Costa protagonisti nell'esito della drammaturgia. Con intensità e padronanza ci accompagnano all'interno di una pièce labirintica senza mai perdere, o farci perdere, il cammino. Una citazione anche per quelli che hanno contributo a questa e a tutte le rappresentazioni, in particolare Marta Montevecchi assistente alla regia, Diego Labonia per le luci, e per scena, scenotecnica e costumi rispettivamente Abrea Simonetti, Claudio Petrucci, Amoni Vacca e Ginevra Polverelli e ancora altri che non riportiamo per esigenze di spazio. Spettacolo di spessore che ha impressionato e colpito il pubblico.

 

Foto di Valentina Bianchi