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L’umorismo, lo sforzo ginnico, la tecnologia. Poi la musica giusta, mai piatta né scontata, qualche coup de théâtre e lo stile di David Parsons sembra spiegato. Sembra. In realtà c’è molto di più sotto la superficie così patinata. Lo spettacolo si chiama semplicemente “Parsons Dance Tour” ed è ormai un marchio di fabbrica, capace di riempire lo sterminato Teatro degli Arcimboldi a Milano per tre sere (26-28 marzo) come solo certi musical nazional popolari riescono a fare. Ma non è una novità, il miracolo si ripropone ogni anno al suo arrivo, sa attrarre lo studente di danza, la casalinga, il critico teatrale e il dopolavoro aziendale.
Ma Parsons la sa lunga, non si accontenta della ricetta facile. E’ astuto, senza dubbio. Sa riproporre i suoi pezzi forti, come “Caught” (1982), creato per se stesso e giocato sull’effetto scenico della sorpresa. Le luci stroboscopiche a intermittenza colgono il ballerino nel culmine dei salti, come sospeso in aria. L’ovazione

sorge spontanea e nasce una certa simpatia per la ballerina del momento, bistrattata dall’arte estrosa del maestro e costretta a cotanto immane sforzo. Dietro a tanto clamore mediatico, tuttavia, riposa molta sostanza.  Era il 1978 quando Parsons entrò a far parte della compagnia di Paul Taylor, ne apprese la maestria e poi creò il proprio stile, scrisse la propria storia anche passando per Pilobolus, Momix e White Oak Dance Project fondato da Mikhail Baryshnikov.
Oggi è il mostro sacro della danza, sufficientemente eclettico per risultare pop, abbastanza sincretico per affascinare l’opera. Così all’attivo risultano più di settanta coreografie, alcune delle quali commissionate da grandi brand come Jacob Pillow Dance Festival, Festival di Spoleto, Umbria Jazz Festival, l’American Dance Festival, per non parlare dei pezzi creati apposta per Paul Taylor Dance Company, American Ballet Theater, New York City Ballet, National Ballet of Canada e molti altri.
Quanto allo spettacolo in tourné, è come il gran menu delle occasioni speciali: c’è il meglio e il classico della tradizione. Oltre al già citato (e imperdibile) “Caught”, convince “Swing Shift” (2002), omaggio espressivo al tango, dal forte aroma di Broadway, per non parlare della samba, che rivive in “Nascimento”, un omaggio ispirato a Milton Nascimento, il cult della musica brasiliana.  
Due premières italiane sono invece “Train” (2008), una coreografia di Robert Battle, ex ballerino della Parsons Dance e attuale direttore artistico dell’Alvin Ailey American Dance Theater, che ha creato un pezzo intrigante, saggio mix di passi di danza classici e deragliamenti nella fisicità più pura e vitale. “Whirlaway” (2014) è invece dedicato all’ambiente jazz newyorkese, tra suggestioni musicali e solide coreografie.  
Il cast, formato da giovani talenti, annovera anche l’italiana Elena D'Amario, già stella di “Amici”.