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Ramón María del Valle Inclán (1866-1936) poeta, scrittore e drammaturgo spagnolo, considerato uno degli autori chiave della letteratura del Novecento, per la prima volta al Piccolo Teatro con Divinas palabras (1919), un testo caratterizzato da uno stile drammaturgico radicale, in cui il grottesco e il surreale diventano l’ispirazione per una storia crudele e visionaria, in cui la realtà viene analizzata attraverso uno specchio deformato: quello dei nostri sentimenti ciechi di fronte alla sofferenza degli altri. L’assenza di uno sguardo religioso e la lotta per recuperare in qualche modo una perdita della spiritualità rappresentano la ricerca eterna. Le parole divine sono quelle che attraversano i tempi, le parole divine sono quelle che hanno un fondamento di verità, sono quelle che l’uomo in quanto mortale non può e non sa pronunciare. “Qui sine peccato est vestrum, primus in illam lapidem mittat”. Attraverso un’invenzione teatrale ruvida e violenta Damiano Michieletto racconta quello

che i telegiornali ci fanno vedere ogni giorno: torture, violenze, lapidazioni e lo fa attraverso una storia crudele e visionaria scritta da un autore nel secolo scorso: la scrittura è sempre visionaria. La regia fantasiosa e creativa, produce spaesamenti continui per la ricchezza di immagini, per i numerosi simboli che, in alcuni momenti, disorientano lo spettatore; il coinvolgimento è potente ed esprime una modernità che tutto fagocita che tutto sommerge in un piano scenico precario: gli attori si muovono su una base di calce e fango come quella dei cantieri in costruzione e sullo sfondo una cappella, l’immagine di un Cristo. La religione può salvare l’umanità? E’ ancora tutto da costruire sembra dirci il regista, è ancora tutto da rifondare, uomini e donne che affondano nel fango che affogano nei loro stessi abiti e mostrano un’umanità dolorosa e stravolta. Lo stile è quasi filmico, flash che attraversano la sala e scorrono come una pellicola. Ma c’è anche l’opera che ha reso Michieletto ricercato anche all’estero. Il piccolo palco dove il sagrestano racconta la sua vicenda richiama il piccolo palco di Pagliacci, la notte buia e confusa dove il popolo si affanna a cercare di comprendere, di capire invano, è l’atmosfera della reggia di Macbeth. La vicenda suddivisa in tre giornate ha per protagonisti un sagrestano, Pedro Gailo umiliato dai tradimenti della moglie, Mari Gaila; la loro figlia Simoniña; Juana la Reina che gira con un carretto (nello spettacolo una carrozzina) in cui dorme incosciente, il proprio figlio, un nano idrocefalo e idiota. Ci sono anche altre figure ambigue donne del popolo pettegole e pronte a giudicare come Rosa la Tatula; Miguelin, un transessuale sofferente e ironico; Séptimo Miau forse una reincarnazione del diavolo, indifferente a tutto e tutti fischietta il Bolero di Ravel, mentre gli altri soffrono, crudele ed egoista; una folla di anime senza speranza, rappresentati come fossero degli zombi. Gli attori si aggirano per la sala ognuno con un tono e una voce diversa, volutamente senza uniformità, ogni attore segue la sua scuola il suo percorso, si enfatizza in tal modo la solitaria indifferenza, si estremizzano le diversità: tante anime chiuse ognuna nel proprio mondo, nella propria miseria. Una storia costruita su situazioni molto forti, violenze, stupri, esecuzioni, torture, spesso scandite dalla carrozzina con il “mostro” da portare in giro agli angoli delle strade. Ma il mostro nella carrozzina è anche dentro tutti noi...La sala Melato è interamente occupata dalla scenografia originale, fortemente evocativa dal punto di vista acustico, il rumore delle suole delle scarpe sul fango crea un altro personaggio in scena  ( Paolo Fantin crea una complicità e una sintonia con il testo rara a vedersi) A scandire i momenti fondamentali della rappresentazione c’è un sipario di metallo grigio asettico che si alza e si abbassa in cui si aprono delle porte e dove, talvolta, i personaggi battono con disperazione i pugni per cercare di entrare in un altro mondo in un’altra epoca, luci accecanti interrompono la notte.

Occorre citare i numerosi interpreti quasi tutti protagonisti perché ognuno traccia il proprio segno con forza sbalorditiva, con convinzione e decisione.
In ordine di apparizione:
Pedro Gailo                    Fausto Russo Alesi
Séptimo Miau                 Marco Foschi
Poca Pena / Benita           Lucia  Marinsalta
Juana la Reina                 Sara Zoia
Rosa la Tatula                  Bruna Rossi
Miguelín el Padronés       Gabriele Falsetta
Donne                               Federica Gelosa, Francesca Puglisi
Mari-Gaila                        Federica Di Martino
Marica del Reino               Cinzia Spanò
Il Cieco di Gondar / Milon Nicola Stravalaci
Simoniña                            Petra Valentini
e infine gli allievi del Corso "Luchino Visconti" della Scuola di Teatro Luca Ronconi:
Alfonso De Vreese, Benedetto Patruno, Marco Risiglione.
Il rischio di questa complessa rappresentazione è che le “parole divine” si perdano si confondano dentro la molteplicità dei segni scenici messi in campo da una regia così dinamica. Si capisce comunque che c’è un intento preciso: cercare una strada, una sfida per trasformare il limite delle parole umane che aspirano alla divinità in forza espressiva e comunicativa: ora drammatica, ora ironica, ora surreale, ora grottesca. Tutto giocato attraverso un corpo presente che diventa altro rispetto a ciò che mostra, perché vissuto come possibilità. La vita dal vivo (per dirlo con le parole di un poeta che conosceva bene l’umanità: Andrea Zanzotto) non è solo sangue, ma sangue e pus:
«Sangue e pus, e dovunque le superflue
superfluenti vitalbe che parassitano gli occhi,
un teleschermo, fuori tempo massimo.
Dirette erutta e Balocchi»
I nostri occhi parassitati da teleschermi fuori tempo massimo, appaiono risvegliati con forza dalla regia di Damiano Michieletto, anche lui, come Zanzotto, sperimentatore linguistico e visivo.

Milano, Piccolo Teatro Sala Melato, 8 Aprile 2015