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Si ha il sempre più fondato sospetto che il tempo che è passato dalla immensa tragedia della seconda guerra mondiale, e da quel suo portato esplicativo che è stata la Shoa, non sia passato invano solo per quanto riguarda l’oblio che tenacemente l’avvolge, o meglio ne avvolge quei suoi caratteri essenziali che riguardano non tanto o non soltanto la storia, ma piuttosto l’identità e la consapevolezza intima ed esistenziale di ciascuno di noi.
Così si ricordano gli eventi storici e politici con una ripetitività ormai seriale (gli anniversari) ma come se non ci riguardassero più, tutti e ciascuno di noi, come se non riguardassero i nostri comportamenti e le nostre relazioni, complice proprio un oblio così accuratamente mascherato, celato e rimosso e per questo attivamente cresciuto. Eppure molti di noi sono nati al crepuscolo o a ridosso di quegli stessi eventi.
Forse solo l’arte ha la capacità di riportarci al loro interno e soprattutto ha la capacità di mostrarci i vincoli che ineluttabilmente li legano a ciò che siamo e a ciò che vogliamo essere. Ha la possibilità cioè di svelarci come i “grandi dittatori” sanguinari della storia non nascono dal nulla

ma sono anche il ribaltamento, appunto nella grande storia e nella grande politica, di ciò che talora tutti noi siamo.
In effetti si può essere e si può diventare i dittatori di uno stato e di una comunità, perché ancora troppo spesso si può essere dittatori e crudeli con poche persone o anche con una sola o addirittura con sé stessi, con i propri comportamenti, con le proprie prevaricazioni, con le proprie anche piccole prepotenze quotidiane.
Encomiabile dunque è stata la scelta di Massimo Venturiello di riproporre, in una singolare riscrittura scenica, la narrazione del famoso film di Charlie Chaplin, rivisto in drammaturgia con una sintassi che ne rilegge con onestà intellettuale ed efficacia la potenzialità significativa e l’efficacia comunicativa.
Questo perché quella narrazione nasce ed è tuttora dentro quegli eventi, oltre il tempo che ci vuole da loro distanziare, e soprattutto perché con l’arma della commedia e della risata sfonda le barriere che ci dividono da un riconoscimento profondo della nostra implicazione, ancora oggi, in quegli eventi, richiamandoci così alla “responsabilità”.
Non dobbiamo certo ripercorrere quella narrazione, che tutti credo conoscano, ma la drammaturgia riesce ad essere particolarmente efficace anche con la mescolanza tra recitato e cantato, fornendo le belle musiche una sorta di collante espressivo che dà ritmo costante, tra accelerazioni e le pause quasi estatiche delle sue cadenze yiddish, alla riscrittura scenica.
Ne risulta così preservata l’ironia e la comicità del testo che non elude critica e riprovazione ma, al contrario, le enfatizza perché riesce ad avvicinarle a noi e riesce a farci avvicinare ad esse.
La regia a due mani dello stesso Venturiello e di Giuseppe Marini ne asseconda gli effetti nei movimenti scenici, mentre le scene di Alessandro Chiti traslano in evidenti simbologie il senso della intera rappresentazione.
Bravo Massimo Venturiello a calarsi nella doppia parte (il dittatore e il barbiere ebreo) ideata da Chaplin senza “fargli il verso”, anzi rivedendola ed aggiornandola anche nel linguaggio, traslato in similitalico-tomanico maccheronico dagli effetti paradossali fino alla risata aperta.
Brava Tosca, nella recitazione e soprattutto nel canto sostenuto da una voce dall’ampio spettro e dalle modulazioni talora nostalgiche e melanconiche, talora robuste fino alla ribellione.
Infine bravi tutti i coprotagonisti, Lalo Cibelli, Camillo Grassi, Franco Silvestri, Gigi Palla, Gennaro Cuomo, Pamela Scarponi, Nico Di Crescenzo e Alessandro Aiello, capaci di trasformarsi e mescolarsi (perseguitati e persecutori) con abilità mimica e padronanza.
I bei costumi soni di Sabrina Chiocchio e le coreografie di Daniela Schiavone, ma una particolare nota meritano le musiche originali e assai ispirate di Germano Mazzocchetti.
Al teatro della Corte di Genova, per le Compagnie ospiti (è una produzione della “Società per attori”) dello stabile genovese dal 14 al 19 aprile. Buono il concorso del pubblico che ha “riso” talvolta amaramente e più volte applaudito anche a scena aperta.