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Traslazione-trascrizione in scrittura scenica basata su una sintassi fisica e su una intensa grammatica di movimento corporeo e coreutico, questa drammaturgia di Giulio Costa e Stefano Tè del Teatro dei Venti nasce da un testo teatrale di Ingmar Bergman del 1954, poco noto di per sé ma che costituì la base narrativa delle suggestioni del suo molto più famoso esito cinematografico, “Il Settimo Sigillo”.
Il sesto evento del Festival Akropolis, sabato 18 aprile negli omonimi spazi di Genova Sestri Ponente, affronta così, attraverso questo spettacolo, il tema della morte, anzi il tema del rapporto con la morte che ha suggerito sia la narrazione citata che la contemporanea riscrittura drammaturgica che, in particolare, ne enfatizza

la genesi e la evoluzione in questa nostra modernità liquida.
In effetti la fatica e anche la sofferenza iscritta nei movimenti scenici e nella mimesi corporea, che ricorda in parte i temi e le immagini della crudeltà artaudiana, evidenzia da una parte la nostra progressiva perdita dei riferimenti di valore e di identità, culturali, psicologici ed esistenziali, ed un loro contestuale trasferimento ed iscrizione direttamente al corpo, in cui però si disperdono, un corpo che dunque deve essere allenato e preservato per un compito arduo e comunque destinato all’insuccesso.
Così il rapporto con la morte, da discrimine metafisico e identitario, si trasforma in contrapposizione denegante, in lotta contro un tempo che inevitabilmente ne corrode le forze e ne intacca la bellezza, in un tentativo di allontanare ciò che è inevitabile, la morte appunto, che così corrode fino alla marcescenza il senso della nostra esistenza, la quale nel rapporto con la sua fine ed i suoi limiti ha la sua inevitabile verità.
Onnipotenza ed impotenza così si confondono e mescolano, tra sogni tecnologici di eterna giovinezza e conseguente perdita di identità, che nel tempo ha gli argini del suo evolvere, o sua degenerazione mostruosa nell’immagine di una vecchiaia rifiutata con goffi e dolorosi tentativi di mascherarla mascherandosi.
Protagonista qui è la donna, la brava Francesca Figini, forse perché la tradizionale e antica identificazione del femminile con la natura ne facilita la significatività, ma solo come simbolo immediato di una condizione umana più generale e dunque anche metafisica, di cui Bergman intuiva il progressivo degenerarsi e di cui questa drammaturgia tenta di mostrarci gli esiti più contemporanei.
Sorta di rinnovata “Dea” Bontempelliana, la protagonista si riconosce ormai esclusivamente nel proprio corpo, nella propria fisicità e quindi nella impari lotta per mantenerla integra, quasi che “le maschere” sociali di un tempo si fossero ormai completamente integrate, incorporandosi direttamente nel corpo stesso ed in esso perdendosi, insieme a valori, affettività e capacità di relazione, e perdendo in parte anche l’umanità del nostro esistere nel mondo fino a condannarci alla solitudine in scena e nella vita.
Lavoro che nasce da mille suggestioni, talora non perfettamente integrate, e ambizioso nella sua volontà di scavare gli incerti recessi della contemporaneità e i lasciti di una modernità che si evolve, talora con una razionalità che disperde ed attenua l’impatto della passione e della crudeltà.
Per la regia di Stefano Tè e con le musiche di Alessandro Pivetti ha avuto una ottima accoglienza ed è un lavoro da valutare ancora.

 

Foto Chiara Ferrin