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È la notte tra il 26 e il 27 settembre dello scorso quando a Iguala, Messico, all’interno dello Stato di Guerrero famoso per la sua capitale Acapulco, la polizia federale (un vero e proprio organismo militare) attacca un pacifico corteo di studenti della “Escuela Normal Rural” di Ayotzinapa, lì per raccogliere fondi, uccidendone subito alcuni e prelevandone 43 di cui ancora adesso non si sa con certezza nulla, nuovi e tragici desaparecidos.
È un momento di rottura per il Messico, forse al di là della stessa volontà dei colpevoli, in cui una ormai persistente guerra sotterranea si fa guerra dichiarata e aperta dei ceti dominanti, sempre più intrigati in una rete di ambigui rapporti di scambio con la criminalità organizzata ed il narco-traffico, contro il popolo e contro uno dei simboli della sua resistenza e vocazione di libertà, quelle scuole rurali destinate ai ceti poveri  che da decenni cercano di coniugare l’istruzione con la critica e la responsabilità verso sé stessi e gli altri. Una guerra dichiarata ad un nemico che si vuol far scomparire per lasciare libero il campo ad ogni più ambiguo

appetito di potere.
Proprio in questi giorni è passata in Italia la carovana dei sopravvissuti e dei familiari degli scomparsi che da allora pretende la verità, non credendo alla versione ufficiale della consegna ai narco-trafficanti che avrebbero poi ucciso e fatto scomparire i corpi. Non accontentandosi quindi neanche degli arresti (sindaco e moglie) quasi di copertura, vogliono dalle autorità la liberazione di tutti gli studenti che fino a vera prova contraria considerano vivi.
Con la drammaturgia vista al Festival Akropolis il 30 aprile, secondo momento in evoluzione di uno studio teatrale in stretto collegamento con i fermenti artistici che vengono dal Messico, la Compagnia “Instabili Vaganti” si affaccia in quella terra incognita, affrontandone le implicazioni non direttamente ma bensì mettendone in scena il dolore profondo.
Un dolore che è fisico e psicologico, che è uno strappo sanguinoso nella trama dell’esistere e che però affonda e riconosce le sue radici in un oltre metafisico, in cui la condizione esistenziale e anche quella politica riescono a dipanarsi con chiarezza. Ci apre gli occhi.
Così le immagini fotografiche e i ricordi in esse intrisi, che occupano la scena e ne condizionano i confini espressivi, non sono insanguinate presenze fantasmatiche, ma entità concretamente fisiche, irriducibili, che pretendono “vita”. La regia e drammaturgia di Anna Dora Dorno costruiscono così attorno ad esse movimenti scenici e coreutici che, riverberati in atmosfere sonore di grande efficacia comunicativa, li spingono al di qua della dimensione di morte in cui gli assassini vorrebbero rinchiuderli e dimenticarli, e li proiettano quasi verso di noi facendoci partecipi di un loro inestinguibile desiderio di vita.
Vivere, dunque, una così tragica vicenda attraverso la rappresentazione del suo dolore non solo ce ne fa riconoscere i tratti ed i significati più profondi, ma riesce anche e soprattutto a ricondurla ad una dimensione di umanità, seppur dolente, che appare essersi persa e continuare a perdersi in un contesto storico e sociale ormai così violento.
Un fiore rosso come il sangue è il dono per tutti noi prodotto da una peripezia scenica fatta di parole che spiegano “civicamente”, di suoni e canti che suggeriscono “interiormente” e di immagini che significano.
In scena la stessa drammaturga Anna Dora Dorno con Nicola Panzola e due danzatori, bravi anche tecnicamente, Marta Tabacco, che ha lavorato in Messico per 5 anni, ed il messicano Hector Padilla Isunza, anche coreografo, che portano un fortissimo contributo di intensità emotiva e partecipativa. Recitazione, musica, danza e immagini multimediali sono infine efficacemente integrate nello spazio scenico a cura di Giuliana Davolio.
Uno spettacolo, quello prodotto dalla compagnia bolognese, efficace in scena ed insieme capace di aprirsi a suggestioni fuori scena, capace cioè di organizzare artisticamente un impegno civile e politico, quello per la libertà di opinione e la libertà tout court, encomiabile e che dovrebbe essere, spesso lo si dimentica, intrinseco alla libertà anche del teatro.
Ultimo spettacolo del Festival negli spazi di Genova Sestri Ponente è tra l’altro il frutto di una delle “residenze creative” che hanno caratterizzato l’appuntamento di quest’anno, in ulteriore crescita anche nei suoi esiti, appuntamento ormai in via di concludersi con il laboratorio delle “Officine Papage” fino al 3 maggio. Sala esaurita e molti applausi. Post-spettacolo, l’incontro con la compagnia, ha dimostrato ancora una volta la capacità del teatro di suscitare e richiamare interessi che talvolta il senso comune dominante cerca di occultare.