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L’idea folle di questo spettacolo, e del regista Davide Sacco, incuriosisce. Il trailer preannuncia la presenza degli spettatori sul palcoscenico. Una sfida mentale ed artistica che ci coinvolge in prima persona. Saliamo sul palco. Un boia mi indica in platea, dopo poco mi ritrovo seduta su una delle sedie che delineano i tre lati del palcoscenico. Orazio Cerino interpreta un condannato a morte, seguendo le parole di Victor Hugo, nel suo “Ultimo giorno di un condannato a morte”. Ci ritroviamo al Teatro Sancarluccio di Napoli, unica data 6 maggio, all’interno della rassegna “Le printemps des poetes et des artistes”, a cura di Giuseppe Mascolo, che si protrarrà fino alla fine del mese. Nessun nome, nessuna storia, tutto comincia in medias res, durante l’attesa della condanna. Le ambientazioni punk, così come il costume di scena di Cerino, sembrano catapultare gli spettatori, in platea e sul palcoscenico, all’interno di una scenografia cinematografica, dove tutti siamo giudici di un uomo,

emblema della storia. In effetti la connotazione specificatamente francese e storica, che ritroviamo all’interno del testo di Hugo, qui viene superata, proprio perché la trasposizione dell’ambientazione ai nostri giorni, o forse in un tempo mai specifico, rende indispensabile lo scollamento dall’epoca e dalle relative tematiche di  cui scriveva l’autore. L’uomo giudicato dalla platea, dalla giuria, dagli stessi spettatori, diventa simbolo dell’umanità intera, della lotta sociale ed artistica. Metafora del teatro, infatti, l’uomo sul palcoscenico viene costantemente giudicato, lacerato, ucciso. La scena è costruita attraverso una gabbia “aperta” in ferro, un ring, un circo, dentro cui si muove l’attore-uomo, si dimena, riflette, urla, nel suo giubbotto di pelle, i suoi anifibi, i suoi occhi cerchiati di nero ed il suo viso ceruleo. Della bravura di Cerino ne avevamo avuto sentore da tempo: questo giovane attore, che proviene da una formazione intensa, legata anche all’arte di strada, dimostra facilità di parola, voracità negli occhi, mimica facciale intensa, viscerale corporeità. Il racconto si sposta dal luogo di prigionia alla carrozza che trasporta il condannato al patibolo, in un’alternanza di dolore ed ironia che lega fortemente il pubblico al racconto.  La contraddizione tra visione frontale, destinata a chi rimane in platea, quel pubblico, cioè, che osserva, ignaro ed incuriosito, come se fosse “popolo”,  cosa stia succedeno sul patibolo, e noi, seduti sul palcoscenico, parte integrante di questo spettacolo, crea una situazione di coinvolgimento totale. Luogo teatrale e luogo reale si fondono sin dai primi momenti, mai scindendosi, fino alla fine. Il ruolo di chi siede sul palcoscenico diventa quello dei giudici, responsabili, accusatori; ci ritroviamo ad essere sadici, a leggere ciò che ci viene imposto dal boia, a pronunicare la fatidica condanna indossando il cappuccio nero dell’uccisore. Appare, dunque, un lavoro complesso per l’attore che gestisce non solo il racconto personale, ma interpreta anche i diversi personaggi presenti all’interno della vicenda, e soprattutto regola la reazione degli spettatori presenti sul palcoscenico, diversi ad ogni replica e spesso inconsapevoli delle loro “capacità sceniche”. A questa complessità si aggiunge l’utilizzo del microfono, che diventa oggetto di scena, lampadina che penzola, amplificatore di un microregistratore, compagno presente durante tutto lo spettacolo. L’utilizzo del microfono, nello specifico il cosiddetto “gelato”, serve all’attore per modulare le tonalità e la timbrica delle voci dei diversi personaggi, per interpellare gli stessi spettatori sul palcoscenico, per vomitare pensieri e riflessioni personali che vengono così “amplificati” all’esterno. Il microfono diventa mezzo contemporaneo per trasportare, attraverso un viaggio temporale, il racconto di un tempo antico, dalla scrittura alla voce elettronica della contemporaneità. Di certo l’utilizzo di questo strumento limita fortemente l’intensa corporeità dell’attore che sembra trattenuto, legato, impacciato in alcuni momenti, a causa dello stesso lungo filo che impedisce la fluidità di azione. Il regista, però, conferma la volontà dell’utilizzo del microfono come corda che lega un uomo condannato a morte, come oggetto che blocca ed imprigiona. La forza espressiva di Cerino, presente e costante, sembra quindi essere trattenuta fisicamente da un filo visibile ed invisibile, in un’eterna attesa di esplosione, mentre le parole scorrono veloci, incessanti – ed in questo è abile l’attore – come una corsa contro il tempo e contro la morte. L’immagine della bambina, la figlia che non riconosce il padre e che, inevitabilmente, segna la fine definitiva del condannato a morte, è profondamente delicata e dolorsa:  proprio in quel momento, il flusso di parole rallenta, il tempo si ferma ma il condannato continua ad esprimere una vitalità mai sopita. I battiti del cuore sono colpetti di dito sul microfono, la descrizione della cella ricorda, a tratti, quella de “Il pozzo e il pendolo” di Allan Poe. Una maglia rosa, delicata, sotto l’involucro di pelle nera, emerge attraverso la spalla dell’attore. Un abbraccio doloroso ed invisibile tra padre e figlia, anche lei giudice ed accusatrice. Poi il rosso delle luci, la gabbia cade davanti ai nostri occhi, la ghigliottina scende. Buio.
Foto Roberta Pagano

CONDANNATO A MORTE. THE PUNK VERSION
Teatro Sancarluccio Napoli
6 maggio 2015
"Condannato a morte. The Punk Version" è patrocinato da Amnesty International e dal Giffoni Film Festival.
di Davide Sacco
Da “Ultimo giorno di un condannato a morte” di Victor Hugo
Regia: Davide Sacco
Interprete: Orazio Cerino
Scenografia: Luigi Sacco
Costumi: Clelia Bove
Luci: Francesco Barbera