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Primavera dei Teatri, definizione adatta ed adattabile al percorso intrapreso durante questo ultimo mese di maggio,  caratterizzato dalla nostra presenza a due festival teatrali situati in due regioni artisticamente proficue di questo nostro Sud. Dopo l’esperienza pugliese dell’Apulia Fringe Festival, non potevamo esimerci dall’essere presenti anche in Calabria. Giunto alla sua XIV edizione, il festival PRIMAVERA DEI TEATRI, organizzato a Castrovillari, in provincia di Cosenza, dimostra subito una delle sue caratteristiche fondamentali: la confluenza. Situato in un luogo, a dir la verità, non facilmente raggiungibile, sulle montagne al confine tra la Calabria e la Basilicata, tra i bellissimi paesaggi  del Monte Pollino, il festival raccoglie artisti, operatori teatrali, critici, rappresentanti di residenze teatrali, provenienti

da tutte le regioni italiane. Entrare nel Protoconvento di Castrovillari, quartier generale e punto di ritrovo, situato nella zona più antica della città, e ritrovare alcune presenze incontrate ad Andria, a Napoli e nella maggior parte dei Festival e degli eventi teatrali svoltisi nel corso degli ultimi due anni, dà la misura di quanto importante sia la confluenza “teatrale” in questo luogo. In effetti, i più importanti critici teatrali italiani hanno avuto modo di confrontarsi su alcuni debutti nazionali proprio a Castrovillari. La nostra presenza, durante le giornate del 30-31 maggio e 1 giugno, è stata accompagnata non solo dagli spettacoli, ma soprattutto da un confronto proficuo e quotidiano con i colleghi e con gli artisti presenti, sia come ospiti che come visitatori. La confluenza attraverso cui identifichiamo l’esperienza a Castrovillari, dimostra la necessità di identificare alcuni luoghi, in determinati momenti dell’anno, come punto di riferimento geografico e culturale, momenti utili per tirare le somme non solo delle stagioni teatrali, ma soprattutto della produzione drammaturgica ed artistica italiana contemporanea. L’organizzazione del Festival PRIMAVERA DEI TEATRI, che si è svolto dal 29 maggio al 2 giugno, è identificabile nelle figure di Saverio La Ruina e Dario De Luca, per la Direzione Artistica, di Settimio Pisano per la Direzione Organizzativa, di Tiziana Covello per l’Amministrazione: il tutto confluisce nel progetto di SCENA VERTICALE, affiancato da tantissimi nomi di giovani collaboratori, stagisti ed operatori che hanno lavorato incessantemente nel corso degli ultimi mesi. Dimostrazione di un buon lavoro è l’ottima accoglienza in un’atmosfera artisticamente e culturalmente stimolante. I luoghi del Festival, dal Protoconvento al Castello Aragonese, sono collocati all’interno di un borgo medievale che racchiude, tra vicoli e paesaggi, la magia del teatro, compreso il dopofestival. 
Assistiamo allo spettacolo POLVERE. DIALOGO TRA UOMO E DONNA di Saverio La Ruina, ma anche al debutto nazionale di Fibre Parallelle con LA BEATITUDINE, di Mario Perrotta con MILITE IGNOTO QUINDICIDICIOTTO, rivediamo SCANNASURICE di Enzo Moscato, con la splendida Imma Villa, conosciamo per la prima volta Roberto Scappin e Paola Vannoni con IO MUOIO E TU MANGI. Due giorni intensi di osservazione e confronto, tra le due sale teatrali, all’interno dello stesso Protoconvento, la Sala 14 ed il teatro Sybaris.
Il primo approccio scenico con il Festival è quello firmato da Saverio La Ruina: l’artista ed autore presenta un dialogo tra un uomo ed una donna, attraverso le mura serrate dell’abitazione della stessa, interpretata da Cecilia Foti. In effetti non esiste immagine di ambienti esterni, se non attraverso le telefonate e nella descrizione iniziale di una festa in cui i due protagonisti vengono presentati, o meglio, appaiono come una coppia a tutti gli effetti. L’ambiente, dunque, si evolve attraverso una vera e propria involuzione, chiudendosi, scurendosi, accartocciandosi su se stesso. Ed è questo il senso dell’intera storia che racconta il rapporto logorante, intrapreso da una donna sottomessa e da un uomo frustrato. La violenza imposta dalle parole diventa premessa alla violenza successiva, che mai appare in scena, mai è accennata, ma che tutti attendono. È proprio il “limen” invalicabile su cui La Ruina costruisce l’intera storia che rende il tutto profondamente angosciante: i due protagonisti, e così il pubblico, osservano la costante oscillazione di un discorso che sopravvive su un perno. Esso non protende nè verso una direzione legata al passato, né verso il futuro, ma rimane necessariamente in bilico. Ecco, dunque, il concetto di “polvere”, riportato dal titolo, quella polvere che è prodotta dalla logorante perforazione di un trapano, cioè dalle parole dell’uomo nei confronti dell’animo della donna-oggetto. Quella stessa polvere che sembra ricoprire i mobili, le vite e la coscienza di sé, sotto un velo stantio e soffocante. Il perno si rompe davanti ad un rifiuto, quello della donna stessa, che ormai, però, è perforata internamente e quindi appare cava, inerme, morta psicologicamente. Il linguaggio utilizzato è ripetitivo, asettico, ovattato. Il pubblico appare coinvolto o infastidito, dimostrando comunque una reazione alla visione e al testo. Non possiamo parlare di denuncia sociale, né di femminicidio vero e proprio, nonostante il discorso potrebbe facilmente scivolare sulla comune e ormai popolare attenzione rivolta all’argomento. In realtà il profondo intimismo che caratterizza questa storia ci trascina violentemente dentro un luogo privato, fisico e psicologico, costringendoci, altrettanto violentemente, ad assistere senza poter far nulla. Di certo, avremmo preferito che il logorante percorso dei due si arrestasse prima, nel momento in cui il pubblico ha colto il senso del circolo vizioso senza esito, evitando di prolungarne eccessivamente gli effetti, peraltro abbondantemente percepiti dagli spettatori che reagiscono, commuovendosi o dimostrando la volontà alla reazione accesa.
Debutto anche per FIBRE PARALLELE, osservati, in passato, negli spettacoli “Lo splendore dei supplizi” durante StartUp Festival a Taranto nel 2013, e  “Furie de sanghe” durante la stagione 2014/2015 al NEST di S. Giovanni a Teduccio (NA). LA BEATITUDINE è titolo emblematico e misterioso, mai esplicativo come in tutte le produzioni di Licia Lanera e Riccardo Spagnulo. Impossibile ridurre alla semplice storia il racconto narrato all’interno di questo spettacolo, poichè di narrazione vera e propria non possiamo parlare. Il surrealismo di Fibre Parallele riporta sulla scena la costruzione a quadri, o meglio ad “interesezioni”, che slittano e si sovrappongono su se stesse creando, poi, un discorso unico. Evidente, dunque, in questo caso, la separazione netta tra le due parti di palco, tra le due storie, quasi parallele appunto, fino ad arrivare ad un’interesezione, ad una doppia faccia di una stessa medaglia, che fonde la vita di tutti i personaggi descritti, conducendoli ad un’esplosione. Da un lato la famiglia “immaginata”, il cui figlio plastificato, manichino simbolo dell’apparenza, divide la coppia piuttosto che unirla, reduce dalla perdita di un figlio vero avuto a metà , dall’altro la madre anziana che ha vissuto suo figlio, benchè paralitico, durante tutta la sua vita. Sullo sfondo un mago della contemporaneità, imbonitore e venditore di illusioni. La beatitudine, dunque, è sinonimo di felicità, portata, però, ad estreme conseguenze, sognata, idealizzata, probabilmente mai ottenuta, medicina mentale e psicologica affinchè l’effettiva mancanza di felicità, quella terrena e concreta, sia curata attraverso un palliativo. L’illusione alla beatitudine, a quell’aspirazione a ciò che vorremmo fare, provare, sentire, ma che non avremo mai, è il senso profondamente doloroso di questo spettacolo che, pur recuperando in tono minore l’ironia di Fibre Parallele, stavolta presenta un urlo vorticoso rimasto in silenzio, volutamente strozzato in gola. Drammaturgia ridotta, ottime musiche, intensa interpretazione di Licia Lanera e Lucia Zotti, oltre all’ottimo cast formato da Riccardo Spagnulo, Danilo Giuva, Mino Decataldo, le pedine di questo spettacolo appaiono frastornate, confuse, dolorose e doloranti. La famiglia smembrata sembra il punto di partenza, comune ormai nella nostra drammaturgia contempornea, ma stavolta si va oltre. L’individuo stesso  è “smembrato”, come i pezzi dei piatti lanciati e frantumati sul palcoscenico, unico urlo e parola, e anela una beatitudine incomprensibile, impossibile, in una eterna ricerca di sé.
Con Mario Perrotta torniamo alla Storia, quella con la S maiuscola, parlando della Grande Guerra. Il centenario della Prima Guerra Mondiale, vede, quest’anno, numerosi convegni, studi, pubblicazioni, dedicati alla figura del soldato. Per la prima volta l’attenzione sulla Guerra del ’15- ’18 viene affrontata dal punto di vista del singolo, del privato, attraverso la lettura di carteggi, diari ed appunti personali che aiutano a comprendere il discorso dal punto di vista dell’individuo. La ricerca linguistica e storica di Perrotta presenta sulla scena il MILITE IGNOTO. Anche in questo spettacolo il discorso sull’individuo e sull’analisi dell’umanità attraverso il singolo, - filo comune in tutti gli spettacoli osservati tra il 30 e il 31 maggio, all’interno del Festival- porta alla luce un punto di vista completamente diverso. L’osservazione del microcosmo conduce ad una maggiore ed approfondita conoscenza e consapevolezza anche dell’evento storico che, al di là di date ed eventi, è costituito da migliaia di uomini. La tendenza all’analisi del privato e dell’individuo emerge costantemente anche all’interno della ricerca accademica, così come l’analisi del multilinguismo diventa elemento storico e culturale di enorme importanza. Il progetto di Perrotta è duplice, così come gli spettacoli: uno intitolato PRIMA GUERRA QUATTORDICIDICIOTTO, ed il secondo, osservato a Castrovillari, dal titolo MILITE IGNOTO QUINDICIDICIOTTO. Come tutti ricordano, l’Italia entra in guerra nel 1915, ma dal 1914 la guerra è già in corso. Perrotta ricorda, dunque, anche gli Italiani del Trentino e del Friuli, austro-ungarici, che combattono sin dall’inizio,  ma che poi verranno deportati e trucidati dalgi stessi Austriaci. A Castrovillari il milite ignoto italiano racchiude in sé l’unità linguistica di tutti gli Italiani coinvolti nella guerra, ma contiene anche il senso di un’unità  mai realmente sviluppatasi in Italia, neanche dopo quella decretata ufficialmente nel 1861. Perrotta descrive migliaia di soldati, parlando in prima persona, facendo confluire tutti nella sua corporeità, quella del contenitore-milite ignoto che testimonia ciò che hanno visto centinaia di soldati. Lo spettacolo-reading in realtà appare come una corsa contro il tempo, attraverso parole semplici, diari e lettere che diventano un discorso unico puntellato da scoppi ed esplosioni in sottofondo, momenti di pause sonore che echeggiano angosciosamente nell’aria. L’osservazione e l’approfondimento, storico, letterario e linguistico, riportato in scena da Perrotta, rivela un lavoro a priori di grande difficoltà e soprattutto di grande attenzione scientifica. L’attore e autore ha ricreato una lingua unica, inventata, che è cucita insieme attraverso i dialetti di tutta Italia, interpretati e pronunciati dall’attore con estrema precisione. Inflessioni, pronunce ( basti pensare al gruppo consonantico “tr” della lingua siciliana, di difficilissima pronuncia, o alla lingua pugliese),  e le cadenze, sono state studiate a tavolino con estrema attenzione. Lo stesso Perrotta afferma, durante la conferenza svoltasi a Castrovillari, che la difficoltà di questo lavoro è costituita anche dalla “sutura” effettuata tra i suoni finali delle frasi pronunciate in un dialetto, e quelli iniziali di una frase in un altro dialetto: lavoro linguistico e sonoro di enorme precisione e difficoltà. L’interpretazione di Perrotta catapulta lo spettatore nel fango delle trincee, ascoltandone i rumori, sentendo gli odori della putrefazione, osservando con gli occhi del Milite Ignoto, simbolo dell’umanità in guerra. Immagini cinematografiche prodotte nella mente degli spettatori, unicamente attraverso le parole, poiché l’attore rimane costantemente seduto in scena. Il progetto di Perrotta si lega anche al lavoro intrapreso dalla Fondazione dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve che dal 1984 accoglie i diari e i documenti donati da famiglie e privati, materiali di inestimabile valore, anche all’interno del discorso inedito sul Teatro del Soldato di cui mi sto occupando personalmente.
Il rapporto tra individuo ed umanità emerge anche all’interno dello spettacolo IO MUOIO E TU MANGI, compagnia QUOTIDIANA.COM, di e con Roberto Scappin e Paola Vannoni. La realtà è quella di un padre in fin di vita, il vero padre della Vannoni, poi deceduto, ricoverato in un ospedale, costretto alle sofferenze della mancata eutanasia. In scena, invece, il dialogo tra un uomo e una donna, all’interno della loro ipotetica casa. Il tempo viene scandito dalle visite in ospedale, da ciò che racconta la donna al marito riguardo al padre, alle sue condizoni, da ciò che avviene nel reparto. Il discorso si ramifica, poi, su argomenti di vita quotidiana, di tema sociale o pseudo religioso, permeati da profonda ironia, da giochi di parole, dalla dolorsa osservazione del reale. Il racconto ride profondamente del dolore, lo ridicolizza, gioca con la morte – basti ricordare l’inno ripetutamente intonato “Devi morire! Devi morire!” di memoria calcistica, così come la coppa posta sotto l’immagine della Madonna con il Bambino -, le azioni vengono mimate, rese grottesche, gli attori appaiono cartoni animati della contemporaneità. Stiamo giocando con le nostre vite e nel momento più doloroso ed intenso, quello del passaggio, la morte ci viene negata. Anche in questo spettacolo una coppia, un ambiente serrato, un dialogo dai toni sommessi, silenziosi, mono tono, mono corde. L’umanità appare affranta, annoiata, ride perché non riesce più a disperarsi, prende in giro la divinità, la fede, la morte, i morti e quelli che stanno per morire. Lo stesso titolo riporta il paradosso della vita. Il padre morente ( e poi morto) viene mimato dalla stessa figlia, ridicolizzandolo. Il pubblico appare diviso: chi ride costantemente, chi rimane spiazzato. L’umanità appare, così, inutile, inerme, insoddisfatta, incapace di reagire o di provare sentimenti. Prendiamo in giro per prenderci in giro. Ed è questa la sensazione, che il pubblico sia stato costretto a ridere, affinchè, dopo lo spettacolo, si renda conto della sua stupidità. Non apprezziamo la caricatura dell’anziano morente, non solo perché la figlia-attrice lo imita volutamente, ma perché il dolore di questo mondo e di questa “morte non-morte” potrebbe essere raccontato con la stessa ironia ma con maggiore delicatezza ed intimismo. Lo stile che caratterizza la compagnia non si può biasimare, ma alcuni momenti di questo spettacolo non convincono.
Lasciamo per ultima Imma Villa ed il suo SCANNASURICE, non perché inferiore agli altri spettacoli ma perché ne abbiamo parlato abbondantemente dopo il suo debutto, a gennaio scorso, presso il Teatro Elicantropo di Napoli, spettacolo  che ha registrato il tutto esaurito per un intero mese.  E ne parleremo ancora. Enzo Moscato pubblica questo testo nel 1982, all’indomani del terremoto del 1980, considerato spartiacque sociale e culturale per Napoli e per l’intera Campania. Il concetto di divisione tra passato e presente è insito nella cultura campana ed è impossibile sradicarlo. Ciò che è stato prima del terremoto si unisce a ciò che diventerà la città. L’idea di osservare Napoli dall’alto, con i suoi vicoli stretti ed oscuri, emerge dalla scenografia voluta da Carlo Cerciello: un edifico sventrato, riempito di crepe, dovute anche al terremoto, ma, se lo si osserva da lontano, costituito da loculi cimiteriali. Cartina geografica osservata dall’alto, in cui i quadrati ed i ripiani tra cui si muove Imma Villa, strisciando come un topo – Scannasurice, ammazza topi, appunto – ricordano i Quartieri Spagnoli, in cui gli uomini che camminano tra i vicoli, appaiano dall’alto come topi. Microcosmo e macrocosmo si incontrano nel multilinguismo tipico della scrittura di Moscato, il cui napoletano è profondamente musicale, ostico ai non parlanti campani e a volte agli stessi campani, da considerare, piuttosto, immagine sensoriale e sonora. Imma Villa parla di “partituta musicale”, ed è così che il testo moscatiano deve essere considerato. Memore della regia di Annibale Ruccello, la messinscena ha subito, nel corso degli anni, dei cambiamenti, e per la prima volta si osserva l’allestimento del regista Carlo Cerciello su un  palcoscenico non campano. Se la visuale dell’Elicantropo di Napoli costringe lo spettatore ad un’osservazione dall’alto verso il basso, così come è più consono, al teatro Sybaris di Castrovillari il pubblico osserva dal basso verso l’alto. Ma l’effetto di costrizione, all’interno della scenografia, non è annullato. Imma Villa emerge nei suoi panni di travestito, il femminello napoletano,  personaggio emblematico, detentore della cultura e della tradizione campana. Tra sacro e profano, Scannsurice stavolta non è interpretato da un uomo travestito, bensì da una donna che rappresenta, a sua volta, un uomo travestito. Personaggio complesso, dunque, non solo nella sua vitalità corporea e linguistica, ma anche nella sua importante funzione di contenitore di un’intera cultura e di una lingua, oltre che metafora dell’umanità intera. Riemerge il concetto di invididuo simbolo, che contiene in sé i racconti orali, le canzoni, le musiche antiche, le leggende ed i personaggi – la bella mbriana o il monaciello - , l’amore, il dolore, l’invocazione alla luna. La casa, simbolo del passato e delle solide fondamenta, adesso è piena di crepe. L’umanità è fatta di topi, esseri insignificanti che prolificano in luoghi putridi, pronti a morire sotto le macerie di un terremoto o uccisi dal curaro, il veleno stillato dalla Madonna – Scannasurece. Imma Villa e i suoi due minuti di applausi a Castrovillari, dimostrano ancora una volta l’intensità dell’attrice napoletana che affascina anche il pubblico del Festival.
Il nostro viaggio calabrese, che ci ha permesso di incontrare molti degli amici di questa regione, costellata da ottimi autori di nuova drammaturgia, si conclude con Tindaro Granata, amico ed artista siciliano, che ha condotto, nel corso del Festival di Castrovillari, un laboratorio. Attori non professionisti, bensì abitanti del luogo, per lo più giovani e giovanissimi, hanno seguito Tindaro nel laboratorio MUSICA IN TE(ATRO), progetto che prevede la stimolazione artistica attraverso la musica e la creazione di piccoli monologhi, per lo più affidati al gesto ed al corpo, nati da idee e proposte rivolte agli allievi e sviluppate, poi, in maniera originale da ogni partecipante.
La nostra Primavera teatrale quest’anno si conclude a Castrovillari, con la speranza di tornare ancora. Adesso è tempo di dedicarci al Napoli Teatro Festival Italia 2015.