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In questa seconda parte del diario del NTFI 2015 ci dedichiamo alle produzioni estere che, come detto in precedenza, si avvicinano fortemente al mondo circense, alla clownerie, agli acrobati, ma soprattutto al sogno ed alle emozioni. Uno degli esempi più eclatanti di questo percorso visivo ed emozionale è sicuramente BIANCO SU BIANCO, spettacolo della compagnia FINZI PASCA, scritto e diretto dallo stesso DANIELE FINZI PASCA, ed interpretato da HELENA BITTENCOURT e GOOS MEEUSWEN. I due artisti, lei brasiliana, lui olandese, memori della formazione presso il Cirque du Soleil, riportano in scena la magia delle ambientazioni e dei suoni, ma non la confusione circense. I due artisti recitano in italiano e la maggior parte del testo viene affidato proprio alla Bittencourt. La difficoltà attoriale di questi

due giovani sta proprio nella recitazione in una lingua non nativa, nel cantare, recitare, riportare acrobazie e scene da mimo e clown. Il tutto contemporaneamente. Lo spettacolo è costruito su una dramamturgia molto semplice: la storia di ragazzini, in una non identificata città, in un non identificato passato. Lui pieno di lividi e cicatrici dovute al padre violento, lei figlia di una donna che amava la luce e creava emozioni con le lampadine. Personaggi delle favole, forse, ma in realtà ben radicati nella contemporaneità. La bellezza sta nel rendere magico ogni momento della nostra vita, pur rimanendo con i piedi per terra. I due si innamorano e creano una famiglia, lei si ammala. L’ospedale diventa teatrino per mettere in scena un buffo ippopotamo, che lui interpreta per farla sorridere, tenendole compagnia durante la degenza. La loro casa diventa foresta di luci e lampadine, ricordando la mamma e lo splendore della speranza, nel momento in cui la ragazza torna dall’ospedale. L’amore ed i sentimenti semplici, delicati, sussurati, costituiscono le fila di questo discorso. L’intero spettacolo stimola la vista e l’udito, grazie alla presenza di centinaia di lampadine sul palco,  stalattiti e stalagmiti con le quali interagiscono gli attori, rendendole vive. La voce viene riprodotta attraverso un delay, sebbene ridotto, la musica viene creata dal vivo in scena, grazie ad una pedaliera che registra e campiona i suoni, i rumori e le voci polifoniche. I due attori riescono ad incastrare tutto, mescolando e fondendo con grande maestria ed eleganza, trasportando gli spettatori in un’altra dimensione. Onirica, per alcuni, in quanto lo spettacolo divide apertamente il pubblico: chi lo ama profondamente ed esce dal teatro talmente estasiato da volerlo rivedere, e chi, invece, proclama la noia davanti ad una storia poco avvincente. L’arma di questo spettacolo sta proprio qui, nel dividere il pubblico tra un bianco ed un nero, senza considerare la via di mezzo. Oltre alla bella interpretazione e all’eleganza che dimostrano i due attori in scena, non dobbiamo dimenticare il lavoro di tecnici e fonici. I due attori toccano le lampadine per spegnerle, asciugando una goccia vitale, prelevandola dalla lampadina per conservarla in una busta di plastica. Una pioggia di gocce immaginarie scende sul palcoscenico, grazie agli effetti di luce – le lampadine che si spegnono ed accendono, giocano con gli attori- e ad un semplice escamotage da clown: un piccolo schiocco sulla busta di plastica, nascondendo il dito, e la goccia di luce sembra cadere esattamente all’interno. Questo spettacolo, sebbene raggiunga un’estrema lentezza in alcuni momenti, appare come esempio preponderante di ciò che desidera la maggior parte di pubblico: la semplicità della storia, le emozioni, l’impatto visivo. Un ritorno al primitivismo scenico, ma soprattutto drammaturgico, rappresentato da quegli artisti di strada o circensi che per lungo tempo non sono stati considerati adatti al teatro o ai palcoscenici più importanti. In realtà, la loro esperienza, sotto diversi aspetti e discipline, e la loro apparente purezza, riescono ancora a raccontare le storie che piacciono agli spettatori. Il Bianco su Bianco di cui parla il titolo rappresenta appunto la confluenza di tutti i colori, e non l’assenza, dal ricordo di un colore alla possibilità di crearne nuovi, di scrivere sul bianco ed inventare, di illuminare attraverso il bianco.
Se la compagnia Finzi Pasca ha contatti con Lugano e la Svizzera, anche Martin Zimmermann e la Svizzera arrivano in scena al Napoli Teatro Festival 2015. Ancora una volta il racconto semplice, anche se assolutamente senza parole, contribusice a donare  emozioni. La scena, in HALLO,  invece, fa da padrona e protagonista. Zimmermann firma l’idea, la regia, la scenografia, la coreografia ed è anche interprete di questo spettacolo, e in un’intervista racconta del suo primo lavoro come vetrinista che spiega, così, le particolari scelte scenografiche. Inoltre afferma la volontà di realizzare per la prima volta uno spettacolo solista, in cui in effetti la solitudine dell’uomo sembra costantemente presente. Il protagonista non parla ma mugugna, danza, mima e piroetta, così come farebbe un comune personaggio dei cartoni animati. La solitudine di questo piccolo uomo, quasi un topolino nelle sue fattezze, si evidenzia nella tristezza di alcune lacrime riversate non appena si accoccola nella sua casa- scatola, che trasformerà più volte nel corso della performance. Quella solitudine umana di cui siamo spesso tutti complici e che produce, invece, nella fantasia, luoghi inimmaginabili, è il punto di partenza di questo spettacolo che nessuna malinconia o tristezza lascerà, invece, allo spettatore. La sensazione trasmessa da questo personaggio, infatti, è identificabile con la gioia di vivere, o meglio con la ferrea volontà di vivere. Del resto HALLO, il titolo, non è altro che un saluto, messo in bocca ad un personaggio bambinesco, che entra nelle case e negli ambienti, saluta ripetutamente come se volesse affermare la sua esistenza. Gli interni delle case, degli uffici, dei luoghi di vita comune si aprono al pubblico attraverso l’utilizzo di pannelli scorrevoli con un gioco di doppio fondo, come quello dei maghi, di sovrapposizione,   di ribaltamento e di porte e specchi. Come molteplici castelli costruiti con le carte, anche i luoghi riprodotti in questo spettacolo sono apparentemente solidi, ma in realtà con un soffio potrebbero volare via. Case da luna park e porte e fondi scuri che permettono l’intervento di tecnici mimetizzati in nero, affinchè i meccanismi di cambio scena siano fluidi e naturali, riproducendo sorprendenti effetti ottici. Lo spazio viene utilizzato a 360 gradi, dalle botole sul palcoscenico, alle zone laterali, al retro palco nascosto dalle quinte, fino all’altezza, grazie ad una struttura rettangolare e parallelepipeda che permette al performer di camminarci sopra, sotto, attorno o a testa in giù. Non pensiamo, però, a tecnicismi particolari, ma anche in questo spettacolo la semplicità della fantasia, dell’illusione, del gesto infantile, della clownerie e del mimo, fanno da padroni.  La scena si colora di quadrati, pannelli, specchi, riflessi, e le immagini ricordano i capolavori dell’astrattismo, citando Kandinskij, fino alle immagini delle città futuriste. La risposta del pubblico è fortissima ed inaspettata: applausi calorosi e risate, anche quando l’attore comincia a far le boccacce durante l’applauso ed invita il pubblico a ripetere. Dopo un primo momento di indecisione, gli spettatori rispondono divertiti. Ed in quel momento le differenze sociali, culturali e di età vengono abbattute.
Dalla Germania arriva invece uno degli spettacoli più attesi di tutto il festival, cioè EIN VOLKSFEIND, ovvero UN NEMICO DEL POPOLO di Henrik Ibsen. L’acclamato regista Thomas Ostermeier presenta sul palcoscenico del Napoli Teatro Festival 2015 Cristoph Gawenda, Ingo HÜlsmann, Eva Meckbach, Andrea Schröders, David Ruland, Moritz Gottwald, Thomas Bading. Ambientazione contemporanea per il testo ottocentesco di Ibsen, ambientato in Norvegia, in realtà sul palcoscenico ingloba un’ambientazione di respiro europeo, la cui collocazione geografica è indicata solo attraverso il linguaggio e le scritte in tedesco, ma adattabile alle numerose questioni politiche ed ambientali di diversi Paesi, Italia e Napoli comprese. La storia del medico Stockmann che, coinvolto dal fratello maggiore, definito Consigliere Comunale, in realtà Borgomastro nel testo, nella fondazione ed organizzazione delle Terme cittadine. La sotira  si evolve nella scoperta di un notevole tasso di contaminazione ed inquinamento all’interno delle falde acquifere, spacciate per fonti salutari. Gli interessi politici ed economici si scontrano con la verità, mettendo contro i fratelli e anche gli amici, e proprio la verità appare, poi, la vera protagonista di tutto lo spettacolo. Quest’ultimo, osservato in lingua tedesca con sottotitoli in italiano, presenta una scenografia d’interno, tipica della produzione ibseniana, con le uscite a destra, sinistra, e sul fondo, previste dalle didascalie. Ciò che emerge subito,però, è l’ambientazione contemporanea in cui si muove il gruppo di giovani rivoluzionari, tra cui il medico ed i giornalisti, dove si svolge la cena iniziale e dove la musica, gli strumenti musicali e le prove vengono inseriti come elementi assolutamente inediti. Il medico Stockmann, nell’idea di Ibsen, è adulto, di mezza età, seppur più giovane del fratello politico, e all’interno del testo ibseniano compaiono anche la figlia Petra ed i due più giovani maschi, che vengono poi eliminati all’interno dello spettacolo. Petra confluisce nella figura della giovane moglie del giovane Stockmann, donna comprensiva che si fonde con la spiccata sensibilità della figlia  ibseniana e con l’ideale rivoluzionario. In questo modo lo spettacolo si alleggerisce diminuendo le presenze attoriali, diventando più fruibile dal punto di vista della comprensione e della memorizzazione dei personaggi da parte del pubblico, sciogliendo e modernizzando il tutto. Del resto gli attori sembrano tratti dalle scene del famoso film “Across the Universe”, in un mix tra il retrò anni ’60- ’70 e le ideologie dei giovani contemporanei, musica compresa, con accenni alle trasformazioni musicali del genere Dubstep. Le pareti della scenografia sono fisse, ma la scelta del regista di renderle “lavagna, permette agli attori di cancellare e modificare le scritte, riproducendo con il gesso sulle pareti, parole, luoghi ed oggetti, previsti all’interno delle discalie ibseniane. I cambi di scena, di luogo e di tempo vengono allestiti durante lo spettacolo, dagli stessi attori, senza pause ( la durata è di ben 2 ore e mezza che scivolano via piacevolmente), attraverso i tempi della Sit -Com americana e delle fiction. Il tema della verità, citato prima, in realtà diventa monito, conclusione, motivo di discussione e di divisioni in fazioni. Da qui nasce un ulteriore elemento, fondamentale all’interno di tutta la storia, che è il ribaltamento delle opinioni. Verità e ribaltamento sono complementari, all’interno di un discorso in cui il potere afferma la sua supremazia attraverso la paura.  Tre personaggi, tre temi: il potere, la paura, la verità. Il quarto atto previsto da Ibsen viene staccato letteralmente dal testo e messo in scena recuperando il comizio previsto anche nel testo originale. La soluzione del regista tedesco, però, semplice quanto efficace, è quella di aprire lo spettacolo al pubblico, e buona parte di questo atto si svolge, infatti, tra platea e palcoscenico, invitando gli spettatori a schierarsi, a parlare al microfono, a dare la propria idea e motivazione sulla questione. Il pubblico ride, sorpreso, ma subito dopo si schiera davvero, e la bravura degli attori sta nel costruire un discorso, in parte improvvisato, in relazione alle risposte, ogni volta diverse fornite dal  pubblico. Lo spettacolo riprende, fino alla conclusione, ma ancora una volta l’ultima scena prevedere una chiusura netta, mancante nel testo originario: i due giovani hanno in mano la cartellina delle azioni delle Terme acquistate dal padre di lei. Adesso il ribaltamento spetta a loro. Continuare e perseverare nella presunta verità, relativa anch’essa, o ribaltare l’opinione per convenienza? Del resto la famiglia si ritrova sul lastrico e senza lavoro, proprio perché ormai rifiutata dall’intera città che crede si voglia infangare il profitto delle amate Terme. Mentre il testo di Ibsen si chiude con un monito – il dottore, infatti, dice: << l’uomo più potente, più forte del mondo è l’uomo solo, il più solo>> - lo spettacolo si conclude, invece, con una birra. I due coniugi osservano le cifre delle azioni e ci bevono su. “I am what I am”, lo slogan di un marchio americano campeggia sin dall’inizio dello spettacolo e viene ribadito nel lungo discorso al pubblico dal dottor Stockmann, tra le cui accorate righe emerge il concetto di depressione come stato di sciopero dell’umanità. Gli stessi attori non parlano di cittadini, ma fanno riferimento agli spettatori o alla maggioranza in sala, in un gioco metatrale che prima è accennato, tra le righe, spesso non colto dallo spettatore, ma che poi diventa palese nel momento in cui viene coinvolto tutto il pubblico. La semplicità di questo spettacolo, pur nel suo complesso lavoro di costruzione e di interpretazione, mette in scena ciò di cui ha realmente bisogno il teatro, oggi: una storia, un testo, la morale, bravi attori, scenografia low cost ma di grande effetto, partecipazione del pubblico. Una grande lezione per il nostro teatro contemporaneo, poiché questo spettacolo non può essere considerato né tradizionalista né passatista, bensì artisticamente e culturalmente pertinente.