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Ritornano in scena le produzioni internazionali, in questo caso un podotto plurilinguistico, sia nel progetto che sulla scena, in cui confluiscono cinque persone provenienti da quatto Paesi diversi: Italia, Australia, Colombia e Stati Uniti d’America. Parliamo delle VUELTAS BRAVAS PRODUCCIONES che nascono dall’incontro tra Lorenzo Montanini, Tina Mitchelle e Jhon Alex Toro, nel 2012. Prima produzione questo MISS JULIA, debutta in Italia al NTFI 2015. In questa confluenza di lingue e di culture, l’Italia, nella figura di Montanini, rappresenta l’unico Paese europeo indicato in questa produzione, ed il testo è propriamente europeo, LA SIGNORINA JULIE di August Strindberg appunto. Ma la confluenza di culture trasporta e trasferisce il discorso in America Latina, riportando in scena le differenze di classe,

identificate attraverso le lingue, quella anglofona e quella spagnola. Lo studio sul testo e sul corpo presenta in scena il recupero di una storia scritta nell’Europa del Nord, alla fine Ottocento, con tutto il suo background culturale e sociale che viene adattato – a dire il vero facilmente e senza particolari stravolgimenti del testo originario, grazie all’operazione testuale di J. Ed Araiza e alla regia dello stesso Montanini – alla contemporaneità di una società Latino-Americana, ancora alle prese con la figura del padrone britannico e del servo ispanico. La storia della Signorina Julia, figlia del padrone, interpretata da Tina Mitchell, e del servo Jean, intepretato da Jhon Alex, della cuoca Kristin, nella figura di Gina Jaimes Abril, si interseca e si evolve scandalosamente, se considerata all’interno dell’epoca in cui è nata. La signorina ricca si innamora del servo, il quale sfrutta l’occasione, denigrando e facendo crollare le aspettative della ragazza, civettuola, svampita, viziata, prepotente e psicologicamente labile, messa a confronto con l’integrità morale e sentimentale della cuoca, personaggio apparentemente secondario, ma cardine e collante tra le due classi sociali. L’intero discorso, e le tematiche di fondo, sono costruiti attraverso una messinscena che sostiene ritmi perfetti, incastri, velocità, rallentamenti e l’utilizzo del corpo attraverso una gestualità che crea non solo immagini ma linguaggio e racconto, interesecandosi e fondendosi perfettamente con le parole narrate. L’intero spettacolo che, come nel testo, viene ambientato durante la notte di S.Giovanni, la cosiddetta notte di mezza estate, è un invito ad una festa. Il pubblico viene accolto in platea dai musicisti – in questo caso gli ARS NOVA DI NAPOLI, giovani ed ottimi musicisti che ripercorrono le sonorità della musica popolare campana – e dagli stessi attori, il servo e la cuoca, che distribuiscono numerosi bicchieri di vino. In effetti Strindberg fa riferimento alla festa ed alla partecipazione di servi e proprietari terrieri, in una notte durante cui potrebbe succedere di tutto, fino al ribaltamento della rigida gerarchia sociale. La serrata chiusura dell’ambientazione originaria sia apre alla platea, ma solo all’inizio, per richiudersi tra le pareti della cucina della casa del padrone, alla cui sinistra anche la finestra è serrata, e poi sfondata in conclusione. I temi fondamentali su cui si basa l’allestimento, e su cui Strindberg si sofferma ripetutamente, sono la gerarchia e la caduta. L’alternanza tra alto e basso viene descritta visivamente e scenicamente attraverso la collocazione di Miss Julia in alto, rispetto ai servi – nome, peraltro, ibrido: miss in inglese, julia in spagnolo, così come tutto il linguaggio utilizzato dagli attori - : la donna cammina sui tavoli, sulle sedie, viene sostenuta dal servo, ma scende in terra, sul palcoscenico, prostrata e sofferente, solo quando l’inversione dei ruoli si attua. Il concetto di “caduta” è rilevante e costante anche all’interno del testo, reso ottimamente anche in scena dalla compagnia. Scenografia scarna costituita da un tavolo, una finestra, delle sedie, ma in scena siedono anche gli spettatori, che osservano come in un’arena, come in un’aula di tribunale, da entrambe le parti, dal palco e dalla platea, ricordando i corrales iberici, non per la struttura ma per il senso di coinvolgimento totale. Sul palcoscenico anche una violinista, Helen Yee, che ha composto le musiche originali e che, secondo un uso ormai comune, è presente durante lo spettacolo, campionando e creando i suoni dal vivo. Uno degli elementi preponderanti di questo lavoro è il senso del gioco infantile: tutti i movimenti, i linguaggi, le situazioni, nonostante la vicenda sia scabrosa, sembrano costitutire il gioco pericoloso di alcuni bambini. Julia pretende ciò che desidera per poi stancarsene subito ed il premio del suo gioco sono gli uomini da sottomettere e poi scartare; il sevo gioca con il fuoco, sfidando la figlia del padrone e facendola cadere nella trappola. La cuoca, che anche nel testo originario è il personaggio dalla maggiore età, sembra gestire due generazioni, due classi sociali, due bambini che litigano. La pulizia formale e scenica di questa produzione ci dimostra, ancora una volta, come la semplicità del recupero e dell’adattamento di un testo classico, unita all’originalità, siano gli elementi fondamentali e vincenti nel percorso di trasposizione sulla scena contemporanea.
Suggestivo appare, invece, e quindi non naturalistico come il precedente, l’allestimento di EURIDICE ED ORFEO, testo di Valeria Parrella, regia di Davide Iodice. Indicativo il titolo del testo da cui è tratto lo spettacolo ASSENZA. EURIDICE ED ORFEO, edito da Bompiani, firmato dunque dalla Parrella. Il mito classico, tratto dalle “Georgiche” di Virgilio e dalle “Metamorfosi” di Ovidio, arriva alla contemporaneità. In realtà i riferimenti scenici non sono legati ai nostri tempi, poiché l’ambientazione ovattata, surreale, misteriosa ed onirica è unicamente simbolo della mente umana, di quell’uomo doloroso e dolorante, frammentato e fortemente fragile che potrebbe vivere nella nostra contemporaneità ma anche in tutti i tempi. Ancora una volta, dunque, un adattamento, ma in realtà non pedissequo, bensì ispirazione per produrre un testo ed uno spettacolo che ricevano insegnamento dal mito classico per poi approdare all’intima essenza dell’uomo. Impariamo a convivere con l’assenza e nel momento in cui lo facciamo non riusciamo certamente a guarire, ma comprendiamo, almeno, quanto e come sia possibile sopravvivere. Dimentichiamo, dunque, il mito classico nella sua essenza e nei suoi significati intrinsechi, poiché qui la morte di Euridice viene presa a pretesto, come storia universale, per raccontare l’allontanamento ed il concetto di morte. L’assenza fisica si trasforma in vuoto mentale e psicologico. Il mito classico, invece, partendo dalla descrizione delle api e della rinascita della vita attraverso le larve nella carne di un animale morto, secondo tecniche antichissime risalenti al mondo egizio, colloca Orfeo ed Euridice all’interno di un discorso politico-religioso che è evidente in tutta la cultura antica. Orfeo sfida gli Dei degli Inferi, credendo di poter sfidare la morte. È inevitabile che l’uomo non possa vincerla, è inevitabile che Orfeo ritorni indietro, girandosi a guardare Euridice: l’uomo classico dimostra, così, al lettore, la potenza della divinità e la sottimissione ad essa. Il discorso portato in scena da Iodice si collega al mito di Orfeo ed Euridice, qui in ordine invertito, ma partendo dal concetto di assenza e sviluppandolo attraverso quello dello “sguardo”, tralasciando, quindi, la caratterizzazione religiosa e politica di cui sopra. Lo sguardo, l’osservazione, il vedere o il non vedere, nella nostra contemporaneità, non costituisce più un discorso legato alla sfida contro il potere divino, ma con se stessi. Dal macrocosmo della cultura classica siamo condotti all’interno del microcosmo quotidiano ed intimo della mente dell’uomo. Gli Inferi si trasformano in scena, diventando l’inferno personale davanti all’assenza. Un talamo nuziale viene posto al centro della scena, mai illuminata del tutto, ma sfocata attraverso chiaroscuri ed ombre  (basti pensare al volto di Euridice che Orfeo non vuole e non può guardare e che appare, per lungo tempo, in penombra).  Rami e foglie ricoprono il talamo della Ninfa morta e attraversano anche il profilo dell’ “armadio – porta agli Inferi”. Anche qui le musice sono eseguite dal vivo da Guido Sodo, attraverso sonorità mediterranee di estrema bellezza. Anche l’attrice Raffaella Gardon intona vocalizzi e canti di grande eleganza e poesia, sussurrando il nome di Orfeo, evocandolo come le Sirene omeriche, ricordando il canto dell’uomo che resuscita i morti e ammalia gli animali. Euridice, interpretata da Federica Fracassi, sembra essere l’elemento di collegamento con il mito classico, mentre Orfeo, interpretato da Michele Riondino, arriva alla contemporaneità attraversando l’Ottocento romantico ed i dolori del giovane Werther. Hermes, interpretato da Paolo Compagnone, diventa coscienza, suggeritore, presenza inquietante dalla falce mortuaria, da un lato simbolo della campagna virgiliana e della vita, dall’altro spauracchio medievale. In scena la maschera di Tiziano Fario, che avevamo incontrato anche durante il progetto VESTIRE GLI IGNUDI, o meglio il manichino-Euridice che rappresenta il corpo morto della giovane. Nel momento in cui Orfeo riesce a non scorgere più il corpo morto, ma a rivedere la gioiosità della giovane, allora si ribalta il mito: Orfeo guarda la morte in faccia e capisce che si può sopravvivere all’assenza. La porta degli Inferi non è altro che l’armadio in cui è conservato il ricordo, l’abito bianco di Euridice. Immagine suggestiva ed emozionante, che ricorda ancora una volta la storia vera di un protagonista di VESTIRE GLI IGNUDI, ascoltata ed osservata al Dormitorio Pubblico di Napoli durante il NTFI 2014.  Gli Inferi, dunque, altro non sono che la memoria, il ricordo, il dolore, l’assenza, all’interno della nostra vita quotidiana. Il testo della Parrella viene interpretato attraverso l’altisonanza recitativa della tragedia greca e forse andrebbe “asciugato” in alcuni punti dello spettacolo, per renderlo meno ridondante. Il lavoro, in conclusione, appare poetico, emozionante e di rara eleganza, come di solito è lo stile di Iodice. Anche la cenere rientra nel discorso del ricordo, piuttosto che in quello mortuario, con una splendida immagine dell’urna funeraria contenente  le pagine bruciate del diario della vita. Quando Orfeo apre l’urna, la morte viene sfidata. La metafora “cenere-morte” e “vulcano-sanguinante” è viscerale, mediterranea, vitale.
Anche la Prima Guerra Mondiale calca il palcoscenico del NTFI 2015. Inevitabile, durante l’anno del Centenario, ritrovare alcuni spettacoli che si facciano portavoce del  racconto dei singoli e del dolore di molti. In questo caso lo spettacolo è inserito all’interno del programma del FRINGE FESTIVAL ed è prodotto da ISOLA TEATRO. Parliamo di FRIENDLY FEUER (UNA POLIFONIA EUROPEA),  l’ossimorico “fuoco amico”, che racconta di una delle innumerevoli storie all’interno della Grande Guerra, ossia lo scontro tra due armate nemiche, ritrovatesi, poi, composte dagli stessi Italiani. Il cedimento di una guerra sgangherata che ha coinvolto nel combattimento, in nome della Patria, del patriottismo e dell’eroismo, numerosi Italiani, giovani, adulti, emigrati ed artisti, nasce sulle ceneri di un’esaltazione proveniente dall’ultima frangia di un patriottismo nato e sviluppatosi ferocemente già tra il 1911 e il 1912, con i fasti delle vittorie in terra libica. Ma stavolta l’Italia vince la guerra per caso, mietendo vittime, torture, imponendo dolori immani ad un popolo che non sa cosa stia realmente accadendo al fronte. Questi giovani attori recuperano il racconto di guerra attraverso la drammaturgia scenica e la regia di Marta Gilmore. In scena Eva Allenbach, Tony Allotta, Marta Gilmore, Armando Iovino, Vincenzo Nappi. Ancora una volta la musica creata attraverso un computer ed un video sullo sfondo in cui si proiettano le immagini riprese da una telecamerina posta su un caschetto, rendendo al pubblico ciò che i prigionieri di guerra avrebbero potuto vedere durante la notte, sulla neve del Carso. Al centro della scena un enorme foglio bianco, coltre nevosa che ricopre i corpi dei giovani uccisi, dai cui buchi strappati fuoriescono quelle gambe e quei  piedi di una gioventù italiana falciata. Enorme foglio bianco che raccoglie la scrittura, il ricordo, le parole rivolte alle famiglie in attesa. Paradossale il rapporto con Trieste e Trento, gli scontri con gli Austro-Ungarici, il dubbio della provenienza, il dubbio sul nemico o sull’amico, l’ironia nella descrizione degli scambi di doni tra trincee, l’incomprensione linguistica. Il pubblico sorride e ride, ma in realtà l’originalità di questo spettacolo sta nel presentare, per una volta, la Prima Guerra Mondiale attraverso un’ottica differente e cioè quella della ridicolaggine in cui cade l’Italia combattente, condizione che emerge fortemente solo dopo un secolo. Le storie private dei singoli sono le fonti principali su cui numerosi studiosi fondano, oggi, le loro ricerce, analizzando documenti privati, lettere, cartoline e diari, che anche gli attori recuperano e riproducono sull’enorme foglio bianco. Infatti, ci si sofferma,  nell’ultima parte dello spettacolo, sul processo di ricerca effettuato su alcuni nomi e su alcune formazioni militari italiane, descrivendo agli spettatori le varie tappe di ricollocazione e recupero di informazioni. Inserimento interessante, storicamente e scientificamente valido, ma ci si chiede perché utilizzare una recitazione esplicativa così “urlata”, durante una spiegazione che deve far comprendere al pubblico alcuni passaggi importanti. Quest’ultimo viene coinvolto sin dall’inizio, quando i soldati girano tra gli spettatori, sussurrando nelle orecchie frasi di convincimento e di reclutamento, ricordando il lavaggio del cervello inferto ai giovani protettori della Patria, agli inizi del Novecento. Il pubblico viene coinvolto anche in conclusione dello spettacolo, letteralmente trascinato dai soldati in scena, fatto prigioniero e coperto da un telo, oblio simbolico. Il reclutamento sembra già in corso prima dell’inizio dello spettacolo stesso, quando riceviamo, come programma di sala, una cartolina di reclutamento in guerra, identica a quelle spedite ai richiamati: ironicamente si viene richiamati come spettatori, presso il “teatro di guerra”. L’operazione di questa compagnia mescola, sicuramente in maniera originale, storia, ricerca, documentazione, recitazione, sperimentazione visiva e corporea e ricerca linguistica, ma decade, a tratti, su una recitazione incerta, quasi “immatura”, su alcune ingenuità che minano il rapporto tra le parti del testo e dello spettacolo, frammentandolo ulteriormente. Inoltre, si prolunga eccessivamente la durata della messinscena che potrebbe, invece, concludersi definitivamente con la proiezione di immagini originali dell’epoca. Esse  raccontano dolorosamente gli effetti della guerra sui soldati, descrivendo gli shock e  le alterazioni psicologiche e fisiche subiti da questi giovani. In questo modo, il contrasto terribile tra l’ironia della descrizione dei soldati impacciati e scaraventati in una guerra di cui sanno ben poco, ed il dolore provocato dagli effetti di una guerra che invece è stata vera e disastrosa, risulterebbe posto maggiormente in evidenza.