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Ci sono diversi profili d’interesse nello spettacolo “Odissea, movimento n.1” che Emma Dante ha presentato a Palermo, nello spazio scenico di Villa Pantelleria, dal 20 al 31 luglio e  riproporrà il 26 e 27 settembre al Teatro Olimpico di Vicenza, della cui stagione classica la Dante è direttrice artistica. Si tratta dell’esito del lavoro che la regista ha svolto coi ragazzi della “Scuola dei mestieri dello spettacolo” del Teatro Biondo di Palermo (Manuela Boncaldo, Sara Calvario, Toty Cannova, Silvia Casamassima, Domenico Ciaramitaro, Mariagiulia Colace, Francesco Cusumano, Federica D’Amore, Clara De Rose, Bruno Di Chiara, Silvia Di Giovanna, Giuseppe Di Raffaele, Marta Franceschelli, Salvatore Galati, Alessandro Ienzi, Francesca Laviosa, Nunzia Lo Presti, Alessandra Pace, Vittorio Pissacroia, Lorenzo Randazzo,

Simona Sciarabba, Giuditta Vasile, Claudio Zappalà). Uno spettacolo in cui, certo, è ben visibile l’ancora acerba dimensione artistica di tanti tra i giovani attori selezionati per la scuola e impegnati in scena, ma nel quale sono altresì presenti alcune qualità che lo rendono notevole. Anzitutto l’intelligenza “didattica” con cui la Dante sa usare e insegnare, con piena consapevolezza dei limiti oggettivi dell’ensemble attoriale, tutti i ferri del mestiere del suo linguaggio scenico: e non solo, o non tanto, nei suoi tratti esterni e maggiormente riconoscibili e, di spettacolo in spettacolo, variamente declinati (ovvero la schiera degli attori che si muovono all’unisono, le facce/maschere dal sapore grottesco, l’affiancare il canto e la danza alla recitazione, l’onanismo di gruppo come metafora forte della grettezza del potere maschile), quanto piuttosto nei suoi elementi interni più vitali come la comicità amara, la mescolanza di elementi linguistici di estrazione locale e popolare con elementi tratti dalla cultura “alta” (letteraria e teatrale), l’uso della musica spesso straniante rispetto al soggetto dello spettacolo, la gestione esatta del ritmo e dei diversi momenti di climax emotivo. Tuttavia c’è qualcosa in più che va notato e che rende interessante questo lavoro (anche questo lavoro, come nell’autunno scorso è stato interessante il Ciclope): il mito è ancora materia viva e incandescente per la nostra cultura e di questo dato Emma Dante ha già più volte dimostrato d’esser pienamente consapevole nel dispiegarsi del suo percorso artistico. La mitologia classica e precristiana riesce ancora a rivelarci aspetti dell’umanità (ovvero di noi stessi) nuovi e di sorprendente autenticità e resta altresì un vitale coacervo di archetipi e immagini che non possono essere eliminati se si vuole dar conto di ciò che la cultura occidentale è nel profondo. Ma fin qui non ci sarebbe ancora nulla di nuovo né di particolarmente interessante in questo approccio, altra è invece la consapevolezza che occorre e che ci sembra di intravedere in questo spettacolo: il mito, proprio per la sua oscura vitalità, possiede una intrinseca (e quasi magnetica) capacità di bloccare chi lo usa acriticamente, bloccarlo su posizioni statiche (prima certo rassicuranti, poi conservatrici e infine inevitabilmente reazionarie): l’archetipo che meglio illumina questa qualità è sicuramente il racconto simbolico della capacità pietrificante della Gorgone Medusa che non si poteva guardare negli occhi. Ma anche nell’Odissea sono diversi gli episodi che si pongono come varianti di questo stesso archetipo e di questa potenza pietrificante: le Sirene, Circe, Calipso, la stessa Nausicaa. Ecco, nel riflettere artisticamente, sul mito la Dante sembra aver ben compreso questo nodo e questa comprensione profonda sembra averla voluto trasmettere ai suoi attori: occorre guardare criticamente al mito, non farsene soggiogare ma tenerlo a distanza e comunque alleggerirlo (usandolo, riscrivendolo, piegandolo in direzione paradossale o comica) di ogni dimensione assoluta, assolutistica e, perché no, anche assolutoria rispetto alla complessità del reale. Chiarito quest’ aspetto ecco che, al di là della loro valenza didattica, cominciano ad assumere senso d’arte molte delle scelte formali di questo spettacolo: quelle che abbiamo già detto ed ancora la sua complessiva leggerezza (il taglio breve del soggetto che va dalla vicenda di Telemaco che, con Penelope, subisce la tracotanza dei Proci e decide di partire alla ricerca del padre, alla decisione di Calipso di lasciare andare Odisseo per ordine di Zeus e per tramite di Hermes), l’importanza assegnata all’apporto femminile nel dispiegarsi della trama (la determinazione di Atena, la forza di Euriclea, la profondità e la varietà del personaggio di Penelope che vive nella morte del dolore, poi muore davvero ed infine risorge nell’amore e nella vita, la bellezza e la sensualità dirompente di Calipso e delle donne/dee del suo corteggio) e infine (ma davvero non è l’ultima cosa) la non subordinazione del teatro alla pur grandiosa lezione della narrazione omerica e quindi la felice ricerca di un drammaturgia e soprattutto di un ritmo che siano soltanto teatrali.