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Illuminare la propria intima oscurità, ciò che è di per sé oscuro, guardandola negli occhi, è un ossimoro non solamente retorico ma soprattutto psicologico che quasi sempre non riusciamo a permetterci e a cui invece Enrique Vargas ed il suo teatro, ovvero il teatro quale è al suo fondo, ci inducono, talora con forza quasi violenta, talora con una sottile persuasione velata di malinconica dolcezza.
È come dare “geografia” alla psicologia, squadernare davanti a noi, nel segno stesso di Conrad, dare piedi e mani a quella peripezia che vuole accompagnarci ad una sorta di male fondativo, quel peccato originale dell’uomo che paradossalmente nasce dal frutto della conoscenza e da cui nasce

la conoscenza stessa, il libero arbitrio ed una forse inattesa ansia di libertà.
Lo spettacolo di Vargas, in prima nazionale al Funaro di Pistoia dal 1° al 4 ottobre, non si sottrae ai molti piani di lettura del racconto di Conrad, non arretra e non fugge, ma stimola continuamente la ricerca, con una sintassi costruita sulle percezioni sensoriali che si sovrappongono ma insieme si organizzano in una trama che conduce al dentro di noi e al fuori di noi, quel fuori che fingiamo di subire ma che invece tutti insieme costruiamo e che tutti insieme legittimiamo.
Ispirato ad una esperienza personale di Conrad, un viaggio nel Congo Belga, la narrazione si fa apologo della condizione umana, o meglio di come la condizione umana si sia articolata nell’occidente, colonialista ed imperialista, o capitalista che dir si voglia.
Ma è un apologo che lì non si arresta, è l’apologo cioè di un occidente in cui in fondo tali condizioni di violenza non appaiono altro che l’esercizio “storico” di un male oscuro, quasi metafisico, a mala pena celato e controllato, quel volersi far dio senza esserlo, un male che proietta sull’altro una condizione di dominio esercitabile, esercitata e introiettata oltre la stessa violenza fisica.
Apologo dunque ma insieme condizione concreta che si è arricchita e purtroppo sempre si arricchisce di nuovi scenari, dal Congo di Re Leopoldo fino alle terre desolate della grande guerra e poi all’abominio della shoah, una condizione concreta che Vargas ci fa direttamente sentire nel letto insanguinato di quel fiume arido che percorriamo a piedi nudi e che nessuna acqua renderà fecondo, negli odori aspri dei cunicoli in cui il lavoro degenera nella schiavitù e nella morte, lavoro non più produttivo ma metafisicamente annientatore, negli atti e nei contatti che oltrepassano la nostra stessa pelle piantandosi come chiodi di una croce nel cuore, nelle scelte che dobbiamo compiere e che, però, possono aprire il varco alla ribellione e alla libertà.
Il teatro può consentirlo e Vargas sembra quasi studiare con costanza e speranza i varchi che si possono aprire in quelle tenebre fitte, illuminandole a volte di una umanità dolente ma ancora forte, o di luci che si accendono e verso le quali, come falene, siamo ineluttabilmente trascinati, a rischio forse di bruciarci, ma è un rischio che la stessa condizione umana, tra sottomissione e rivolta, impone.
È una condizione che dunque va oltre i grandi scenari della storia per articolarsi, nascosta dalla modesta quantità di un male di eguale qualità, nelle scelte quotidiane che riflettono e preparano, nella loro banalità, il permanere del male stesso e talora il suo esplodere con virulenza.
Preparano cioè quegli abissi in cui è precipitata la storia, e rischia purtroppo di sempre precipitare se siamo indotti a volgere altrove lo sguardo, abissi nei quali la violenza si esercita in una paradossale condivisione, come nei lager di quella Germania nazista che fingeva di non sapere.
Ne scrive con efficacia Paolo Maurensig nel suo romanzo “La variante di Luneburg”, da cui cito. “In questo stato di vuoto, di abbandono, di palese tradimento, ecco che i nostri stessi aguzzini assurgevano ad un tratto al luogo di quella deità vacante, poiché avevano su di te un potere di vita e di morte, che non trascuravano mai di esercitare. Se intimavano a uno di impiccarsi, questo eseguiva l’ordine con la vuota sollecitudine di un automa”
Farsi dio, dunque, e oscurare, insieme a Dio, la conoscenza come unica fonte per illuminare, con l’arte, la nostra oscurità e per ribaltarla. È a questa fatica ultima, la salvaguardia della conoscenza, che la pièce del Teatro de Los Sentidos sembra invitarci.
Uno spettacolo intenso, molto intenso fin quasi ad apparire angoscioso e disturbante, costruito per stanze oscure e comunicanti l’una con l’altra, come i recessi sorprendenti della nostra intimità, in cui come residui del tempo e dello spazio sono decantati i segni della realtà che concretamente sollecitano o affliggono i nostri sensi e la nostra sensibilità, e in cui siamo condotti dai nove attori della compagnia che ci guardano e ci invitano organizzandoci in gruppi che vagano in quello spazio claustrofobico che dipana la narrazione al seguito di Marlow e Kurtz.
Tratto, come detto da Cuore di Tenebra di Joseph Conrad, è credo una delle più interessanti letture del racconto e nel gioco delle suggestioni che inevitabilmente produce, riporta ovviamente alla mente anche “Apocalypse Now” di Coppola, soprattutto per la sovrapposizione che Coppola stesso fa con il poemetto di Eliot “Terre Desolate”.
Senza la forza della conoscenza infatti, scrive il poeta americano, noi “siamo gli uomini vuoti/siamo gli uomini impagliati/che appoggiano l’un l’altro /la testa piena di paglia. Ahimè”. Altrettanto efficace Virginia Wolf” quando ci invita a “conoscere la vita per quello che è…per poi metterla da parte” per il tempo in cui sarà necessaria.
Al Centro “ex fiere” di Pistoia, per la regia di Enrique Vargas, che ci ha accolto ad inizio del nostro viaggio. Drammaturgia: Enrique Vargas & Teatro de los Sentidos. Coordinamento del progetto Patrizia Menichelli. Assistente alla regia Arianna Marano. Direzione degli attori Gabriella Salvaterra. Disegno dello spazio Gabriella Salvaterra. Disegno luci e poetica dell’oscurità Francisco Javier García, Luigi Biondi. Disegno del suono Stephane Laidet. Disegno olfattivo Giovanna Pezzullo. Costumi Patrizia Menichelli. Direzione tecnica Gabriel Hernández. Attori-ricercatori Betina Birkjaer, Francisco Javier García, Gabriel Hernández, Stephane Laidet, Arianna Marano, Patrizia Menichelli, Eva Pérez, Giovanna Pezzullo, Gabriella Salvaterra. Collaborazione drammaturgica Susana Fernández de la Vega, Valentina Vargas